Luna di Urano Oberon, anno 5918
Sembrava in tutto e per tutto uno di quei fumosi locali malfamati del sud degli Stati Uniti come li vedevi nei vecchi film: un posto angusto con un lungo bancone, scaffali con bottiglie di ogni foggia contenenti sogni e deliri di ogni tipo, un tavolo da biliardo e una rissa al giorno.
Il bancone però non era di legno: Oberon non aveva nemmeno la minima idea di che faccia avesse, un albero.
Si chiamava Holyday e qualche buontempone si era divertito a mascherare la d dell’insegna luminosa con una g di plastica, ironizzando su quanto il bar fosse deprimente.
Sembrava in tutto e per tutto uno di quei fumosi locali, salvo il fatto che al posto dei mandriani coi camperos e dei bluesmen con la chitarra, l’avventore medio aveva la pelle blu o verde e veniva da altri mondi, che avevano altri dei.
Quella volta all’Holyday c’erano cinque persone: quattro giocavano al biliardo, e una era seduta al bancone pasteggiando con whisky terrestre e una barretta di un allucinogeno sintetizzato su Alpha Centauri, come se fosse davanti a una cena a base di caviale in compagnia di un bel pezzo di donna.
L’uomo seduto al bancone faceva letteralmente a cazzotti con l’ambiente circostante, coi suoi boccoli perfetti lunghi fino a mezza schiena e il viso pulito, accuratamente rasato, che non mostrava evidenti segni d’età, però nessuno lo prese seriamente in considerazione.
Solo il padrone della baracca lo fissò da dietro al bancone quando lo vide entrare, e pensò che l’affare che gli pendeva dal fianco, così ricurvo e luccicante com’era, aveva tutta l’aria di essere un frammento della tavoletta del cesso del modello in dotazione alle navi cargo della Federazione Terrestre che lui conosceva bene, come diceva a tutti gli avventori abbastanza annoiati da starlo a sentire, perché quando era giovane anche lui aveva fatto il marinaio, e aveva perso una gamba durante un arrembaggio di tecnobarbari e bla, bla, bla.
Di tutto ciò però quella volta non disse niente.
Pensò che uno che se ne andava in giro con un pezzo di cesso nella cintura doveva essere strambo, ma erano tanti i tipi strambi che passavano di là e lui non ci faceva neanche più caso, che in un posto di frontiera come quello passa solo chi scappa da qualcosa, e tra chi scappa talvolta la riservatezza vale più di uno sciacquabudella.
Successe proprio allora, mentre il barista si stava lucidando annoiato la protesi bioelettronica che sostituiva la sua gamba sinistra.
Cominciò con un tonfo secco, quando l’uomo seduto al bancone sbattè fragorosamente il suo bicchiere sul pianale come se stesse brindando.
La mano dell’uomo però continuò a stringere il bicchiere e premerlo contro la superficie del tavolo senza intenzione di portarlo alla bocca e bere.
L’intera scena era connotata da un’impressione di tensione, e l’aria del locale, già satura di fumo, si fece più opprimente.
Il whisky nel bicchiere cominciò a tremare e nel giro di pochi secondi, a ondeggiare in cerchi concentrici.
Quella vibrazione.
La testa dell’uomo si riempì istantaneamente di così tanti pensieri da renderlo incapace di isolarli e metterli in ordine, e prima che potesse riuscirci un ghigno violento, vivo e divertito si impadronì delle sue apparentemente giovani labbra.
E subito dopo una nitida sensazione di morte si insinuò in lui.
Fu in quel momento che le porte e le finestre dell’Holyday implosero e un nuovo venuto fece la sua comparsa.
Metà del suo volto era costituita di piastre di metallo e tubi e sull’altra metà troneggiava un mohawk, il suo corpo era coperto di un’armatura di plastica e tungsteno in una foggia che ricordava quella dei samurai del Giappone feudale, la cintura era costituita di impugnature di spade laser e dietro le spalle portava due grosse pistole a raggi.
“Edwin!”, sbraitò con gli occhi –anche quello cibernetico- pieni della più genuina rabbia.
“Grazie, so come mi chiamo”, ribattè con calma l’uomo seduto, senza nemmeno girarsi e degnare di uno sguardo il soldato spaziale.
“Sono qui per prendere la tua vita!” urlò il cyborg, ancora più irritato dall’aplombe di Edwin ed estrasse all’unisono le pistole che teneva dietro le spalle e gliele puntò contro; nel frattempo emersero dal pavimento decine di tubi che affioravano e si rituffavano nella terra muovendosi come serpenti marini in direzione del bancone.
Edwin vuotò il suo bicchiere e borbottò “Ma santi cazzi, non di nuovo!”.
Si girò di scatto e scagliò con forza il bicchiere vuoto verso l’occhio bionico del nuovo arrivato velocizzando la sua azione grazie a una corrente d’aria che aveva richiamato appositamente.
L’occhio bionico andò in frantumi e questo rallentò abbastanza il soldato da permettere a Edwin di evocare la Caccia; di solito non lo faceva mai al chiuso, ma stavolta aveva altri impegni e voleva finire la partita al più presto.
Dalle ombre dell’Holyday cominciarono a prendere forma astronauti, tecnobarbari, pirati di Phobos, draghi del sottosuolo di nettuno, un uomo con un ciuffettone e un papillon, tutti accomunati da pupille ferine e tutti forieri di pessime sensazioni.
La Signora della Caccia, questa volta seminuda e con la pelle verde, tipiche sembianze di una regina amazzone di Fedos, ordinò di estirpare i tubi dal terreno: quello coi tubi era un patto molto in voga tra i pirati spaziali, perché permetteva di controllare le macchine ed eventualmente di tramutare gli organismi viventi in automi privi di libera iniziativa, qualora si fosse riusciti a penetrarli con i tubi stessi.
Il soldato cominciò a sparare all’impazzata e per evitare il fuoco nemico, Edwin ricorse al suo patto coi buchi neri, il quale lo fece sparire dal suo sgabello e lo fece materializzare, con la spada già sguainata, alle spalle del mancato assassino.
In un unico movimento Edwin immobilizzò il cyborg da dietro e gli premette la lama della spada contro la gola con un ghigno di morte.
Stava giusto per aprirgli in due il collo quando fu interrotto da qualcosa di decisamente inaspettato che scoperchiò il tetto dell’Holyday: un enorme mecha alto sei metri con un simbolo a doppia vu sul petto stringeva in mano il tetto di lamiera lavorata dell’edificio.
Una voce connotata da una vaga sfumatura metallica sembrò provenire dal grande robot: “Ah che cazzo, Edwin, lascia perdere quel povero coglione, sei in ritardo all’appuntamento e sono venuto a cercarti!”.
L’uomo era seccato per essere stato interrotto, ma intuì, sorrise e si smaterializzò per lo stupore dei pochi superstiti.
Quando riapparve, lo fece in una saletta piena di monitor con due sedili, uno vuoto e uno occupato.
“Allora, che te ne pare?” disse una voce proveniente dal sedile.
“Bè, è imponente, attira l’attenzione. L’ha costruito Weyland vero?” ribattè con interesse Edwin.
L’altro gli rispose con tono strafottente: “Da cosa te ne sei accorto? Dalla sua iniziale gigante che ha stampato sul petto di questa trappola?”.
“Viviamo in un’epoca strana, in cui agli dei non crede più nessuno, almeno nel senso tradizionale della cosa. Ma la gente continua ad aver bisogno di segni e noi dobbiamo evolverci per darne.”
“Segni? Quali segni? In ottomila anni gli unici segni che ho dato agli umani sono stati le mie firme sugli assegni!”
Edwin rispose in tono monocorde: “E chi ha mai detto che voglio fare il messia! Io parlavo di segni della nostra esistenza. Se gli umani smettono di credere nella magia e negli dei, arriveranno alla conclusione che sono soli al mondo, e mi starebbe sul cazzo se diventassero più superbi di noi!”
“Porca puttana se sei proprio mio figlio! Dì, ma chi era la testa di cazzo di prima?”
“E io che cazzo ne so, poteva essere mio figlio..”
Ci fu un attimo di silenzio, poi bevvero, ed entrambi risero. E le loro risate sguaiate e divine risuonarono per molta parte dell’universo, nei secoli dei secoli.
Amen.
Sembrava in tutto e per tutto uno di quei fumosi locali malfamati del sud degli Stati Uniti come li vedevi nei vecchi film: un posto angusto con un lungo bancone, scaffali con bottiglie di ogni foggia contenenti sogni e deliri di ogni tipo, un tavolo da biliardo e una rissa al giorno.
Il bancone però non era di legno: Oberon non aveva nemmeno la minima idea di che faccia avesse, un albero.
Si chiamava Holyday e qualche buontempone si era divertito a mascherare la d dell’insegna luminosa con una g di plastica, ironizzando su quanto il bar fosse deprimente.
Sembrava in tutto e per tutto uno di quei fumosi locali, salvo il fatto che al posto dei mandriani coi camperos e dei bluesmen con la chitarra, l’avventore medio aveva la pelle blu o verde e veniva da altri mondi, che avevano altri dei.
Quella volta all’Holyday c’erano cinque persone: quattro giocavano al biliardo, e una era seduta al bancone pasteggiando con whisky terrestre e una barretta di un allucinogeno sintetizzato su Alpha Centauri, come se fosse davanti a una cena a base di caviale in compagnia di un bel pezzo di donna.
L’uomo seduto al bancone faceva letteralmente a cazzotti con l’ambiente circostante, coi suoi boccoli perfetti lunghi fino a mezza schiena e il viso pulito, accuratamente rasato, che non mostrava evidenti segni d’età, però nessuno lo prese seriamente in considerazione.
Solo il padrone della baracca lo fissò da dietro al bancone quando lo vide entrare, e pensò che l’affare che gli pendeva dal fianco, così ricurvo e luccicante com’era, aveva tutta l’aria di essere un frammento della tavoletta del cesso del modello in dotazione alle navi cargo della Federazione Terrestre che lui conosceva bene, come diceva a tutti gli avventori abbastanza annoiati da starlo a sentire, perché quando era giovane anche lui aveva fatto il marinaio, e aveva perso una gamba durante un arrembaggio di tecnobarbari e bla, bla, bla.
Di tutto ciò però quella volta non disse niente.
Pensò che uno che se ne andava in giro con un pezzo di cesso nella cintura doveva essere strambo, ma erano tanti i tipi strambi che passavano di là e lui non ci faceva neanche più caso, che in un posto di frontiera come quello passa solo chi scappa da qualcosa, e tra chi scappa talvolta la riservatezza vale più di uno sciacquabudella.
Successe proprio allora, mentre il barista si stava lucidando annoiato la protesi bioelettronica che sostituiva la sua gamba sinistra.
Cominciò con un tonfo secco, quando l’uomo seduto al bancone sbattè fragorosamente il suo bicchiere sul pianale come se stesse brindando.
La mano dell’uomo però continuò a stringere il bicchiere e premerlo contro la superficie del tavolo senza intenzione di portarlo alla bocca e bere.
L’intera scena era connotata da un’impressione di tensione, e l’aria del locale, già satura di fumo, si fece più opprimente.
Il whisky nel bicchiere cominciò a tremare e nel giro di pochi secondi, a ondeggiare in cerchi concentrici.
Quella vibrazione.
La testa dell’uomo si riempì istantaneamente di così tanti pensieri da renderlo incapace di isolarli e metterli in ordine, e prima che potesse riuscirci un ghigno violento, vivo e divertito si impadronì delle sue apparentemente giovani labbra.
E subito dopo una nitida sensazione di morte si insinuò in lui.
Fu in quel momento che le porte e le finestre dell’Holyday implosero e un nuovo venuto fece la sua comparsa.
Metà del suo volto era costituita di piastre di metallo e tubi e sull’altra metà troneggiava un mohawk, il suo corpo era coperto di un’armatura di plastica e tungsteno in una foggia che ricordava quella dei samurai del Giappone feudale, la cintura era costituita di impugnature di spade laser e dietro le spalle portava due grosse pistole a raggi.
“Edwin!”, sbraitò con gli occhi –anche quello cibernetico- pieni della più genuina rabbia.
“Grazie, so come mi chiamo”, ribattè con calma l’uomo seduto, senza nemmeno girarsi e degnare di uno sguardo il soldato spaziale.
“Sono qui per prendere la tua vita!” urlò il cyborg, ancora più irritato dall’aplombe di Edwin ed estrasse all’unisono le pistole che teneva dietro le spalle e gliele puntò contro; nel frattempo emersero dal pavimento decine di tubi che affioravano e si rituffavano nella terra muovendosi come serpenti marini in direzione del bancone.
Edwin vuotò il suo bicchiere e borbottò “Ma santi cazzi, non di nuovo!”.
Si girò di scatto e scagliò con forza il bicchiere vuoto verso l’occhio bionico del nuovo arrivato velocizzando la sua azione grazie a una corrente d’aria che aveva richiamato appositamente.
L’occhio bionico andò in frantumi e questo rallentò abbastanza il soldato da permettere a Edwin di evocare la Caccia; di solito non lo faceva mai al chiuso, ma stavolta aveva altri impegni e voleva finire la partita al più presto.
Dalle ombre dell’Holyday cominciarono a prendere forma astronauti, tecnobarbari, pirati di Phobos, draghi del sottosuolo di nettuno, un uomo con un ciuffettone e un papillon, tutti accomunati da pupille ferine e tutti forieri di pessime sensazioni.
La Signora della Caccia, questa volta seminuda e con la pelle verde, tipiche sembianze di una regina amazzone di Fedos, ordinò di estirpare i tubi dal terreno: quello coi tubi era un patto molto in voga tra i pirati spaziali, perché permetteva di controllare le macchine ed eventualmente di tramutare gli organismi viventi in automi privi di libera iniziativa, qualora si fosse riusciti a penetrarli con i tubi stessi.
Il soldato cominciò a sparare all’impazzata e per evitare il fuoco nemico, Edwin ricorse al suo patto coi buchi neri, il quale lo fece sparire dal suo sgabello e lo fece materializzare, con la spada già sguainata, alle spalle del mancato assassino.
In un unico movimento Edwin immobilizzò il cyborg da dietro e gli premette la lama della spada contro la gola con un ghigno di morte.
Stava giusto per aprirgli in due il collo quando fu interrotto da qualcosa di decisamente inaspettato che scoperchiò il tetto dell’Holyday: un enorme mecha alto sei metri con un simbolo a doppia vu sul petto stringeva in mano il tetto di lamiera lavorata dell’edificio.
Una voce connotata da una vaga sfumatura metallica sembrò provenire dal grande robot: “Ah che cazzo, Edwin, lascia perdere quel povero coglione, sei in ritardo all’appuntamento e sono venuto a cercarti!”.
L’uomo era seccato per essere stato interrotto, ma intuì, sorrise e si smaterializzò per lo stupore dei pochi superstiti.
Quando riapparve, lo fece in una saletta piena di monitor con due sedili, uno vuoto e uno occupato.
“Allora, che te ne pare?” disse una voce proveniente dal sedile.
“Bè, è imponente, attira l’attenzione. L’ha costruito Weyland vero?” ribattè con interesse Edwin.
L’altro gli rispose con tono strafottente: “Da cosa te ne sei accorto? Dalla sua iniziale gigante che ha stampato sul petto di questa trappola?”.
“Viviamo in un’epoca strana, in cui agli dei non crede più nessuno, almeno nel senso tradizionale della cosa. Ma la gente continua ad aver bisogno di segni e noi dobbiamo evolverci per darne.”
“Segni? Quali segni? In ottomila anni gli unici segni che ho dato agli umani sono stati le mie firme sugli assegni!”
Edwin rispose in tono monocorde: “E chi ha mai detto che voglio fare il messia! Io parlavo di segni della nostra esistenza. Se gli umani smettono di credere nella magia e negli dei, arriveranno alla conclusione che sono soli al mondo, e mi starebbe sul cazzo se diventassero più superbi di noi!”
“Porca puttana se sei proprio mio figlio! Dì, ma chi era la testa di cazzo di prima?”
“E io che cazzo ne so, poteva essere mio figlio..”
Ci fu un attimo di silenzio, poi bevvero, ed entrambi risero. E le loro risate sguaiate e divine risuonarono per molta parte dell’universo, nei secoli dei secoli.
Amen.