mercoledì 24 aprile 2013

Il web che falsa la vista



Ascoltavo in tv Franco Di Mare nel suo programma, che parlava del web e delle sue ripercussioni nella vita politica ed economica di un Paese: un tweet con un falso allarme scuote Wall Street ecc.

Arrivano a parlare di Rodotà e salta fuori che lo avrebbero votato in 4000 e rotti.
Però sotto a (credo fosse) Montecitorio c'erano cartelloni con slogan tipo "l'Italia urla il nome di Rodotà".
Chi ha scritto questo striscione?
Uno che non ha mai masticato la matematica?
Un sordo-cieco?
Un affezionato spettatore di Mistero?
Oppure un abitante di Italia, paesino di 200 anime sulle montagne del Meridione?

Mi vengono in mente un paio di conversazioni in ambito fumettistico fatte con Cavernadiplatone e Roberto Recchioni.
Frequentando siti come Animeclick, quando ero più piccolo, ricordo con precisione questo sentimento che si poteva cambiare l'industria del fumetto: il web regalava la possibilità di comunicare da molto vicino con le case editrici, addirittura alcuni editori importanti li ritrovavi iscritti al sito; gli articoli facevano sempre centinaia di commenti; dal grafico dei fumetti acquistati saltavano fuori cifre considerevoli (all'epoca non facevo i conti coi continui aumenti di prezzo dei fumetti, quindi ingenuamente pensavo che il mercato navigasse in buone acque visto che ogni anno si spendevano più soldi).
Pensavo di essere in una comunità vasta e con potere di parola, in grado di cambiare tanto con relativamente poco in termini di sforzo.
Poi scopro che in realtà, per quanti fossimo potuti essere, eravamo pur sempre poche migliaia, e che in fin dei conti la casa editrice ci poteva tenere in considerazione, ma in effetti non contavamo poi molto.
Recchioni inoltre fornisce dei numeri, e così scopro con sconcerto come Tex venda in Italia più dei fumetti Marvel negli Stati Uniti, e che One Piece, che in Giappone vende milioni di copie per ogni numero, qua da noi viaggia nell'ordine delle migliaia, ed è il manga più venduto.

Ugualmente mi viene da pensare a Facebook e alla gente (lo ammetto, me compreso) che più di una volta si esprime in termini di "tutto il mondo pensa la tot cosa" riferendosi alla serie di stati che gli compaiono sulla bacheca.
Niente di più opinabile, invero.
Perchè se è vero che gli amici in un certo qual modo te li scegli, è facile che tu te li scelga in base alle affinità che hanno con te; allo stesso modo le pagine a cui accordi il "mi piace" sono, ma guarda un po', pagine che ti piacciono, che condividi.
Se si volesse utilizzare Facebook come un giornale quotidiano, sarebbe un giornale quotidiano fai da te, di parte. Quale parte?
Ma la tua, ovvio. Sarebbe come, partendo da una rassegna stampa, scegliere e assemblare in una testata solo gli articoli di proprio gradimento.
Es: su Facebook ho un sacco di amici dei centri sociali (no, veramente no. Ma è un esempio). Gli amici dei centri sociali inneggiano perennemente alle canne e alla rivolta contro boh-non-lo-sanno-neanche-loro.
Ora immaginate (e non è difficile) partendo da questi presupposti, che io vada in giro a dire che in Italia mezzo mondo vuole la maria libera ed è pronto alla rivoluzione che la Siria je fa na pippa.
Traete conclusioni.

MA ATTENZIONE, perchè la dimensione mondiale e onnicomprensiva del web inculca nell'inconscio degli utenti, l'idea che Internet coincida col mondo.
Vero a metà.
Internet 2.0 è ricalcato attorno al singolo.
I social network incarnano il mondo del singolo, non il mondo pianeta.
Ma l'idea che nulla è sbagliato, tutto è lecito e si può parlare senza dati alla mano pur sentendosi legittimati perchè internet è il mondo, è pericolosa: sta infatti nascendo una nuova generazione di integralisti del transistor col paraocchi, che portano avanti la loro cibernetica crociata della compagnia del baretto pensando di guidare le folle mondiali.

Il vero pericolo di internet secondo me è proprio questo: dà possibilità di parola a chiunque (ma proprio chiunque... Matteo Montesi e Giuseppe Simone dicono niente?!) e crea miopi dittatorucoli di quartiere che rinchiusi nei loro circolini pensano di parlare per bocca del mondo.
Bisognerebbe che un po' di gente leggesse il Sutra del Loto...

martedì 23 aprile 2013

Un buon videogioco




Un buon videogioco è come un viaggio.
Non ti rendi mai conto fino in fondo dell’entità della sua bellezza e del suo impatto sul tuo spirito fin quando non l’hai finito.
Quando sei a Kyoto naturalmente rimani incantato dalla bellezza così eccezionalmente strabiliante di una città tanto profondamente unica al mondo, ma finchè sei lì e la vivi, non potrai fare altro che sintetizzarla dentro di te come un luogo diverso nel comune scorrere della tua vita.
C’è però un momento, quando torni a casa, in cui paradossalmente ti rendi conto della grandezza del tuo vissuto in quei giorni dall’altra parte del mondo. 
È un momento in cui cominci a idealizzare il tuo viaggio, e i luoghi cominciano a ricoprirsi della patina opaca del tempo, della lontananza del ricordo, del sogno.
È in occasioni del genere, quando interiorizzi definitivamente le tue esperienze, che ne riscopri la grandezza e l’importanza capitale nella tua formazione di uomo.
Così è pure per i videogiochi, quelli fatti bene, che non sfigurerebbero in un museo, come opere d’arte.
Shadow of the Colossus è uno di questi.
Il primo impatto con SOTC è indubbiamente meraviglioso. Poi può subentrare la noia, la ripetitività (per quanto sia difficile).
Ti rendi conto però, mesi dopo averlo finito, che ti è entrato dentro, ti ha lasciato qualcosa, ti ha cambiato, quando mentre studi la grammatica giapponese metti nello stereo la sua OST come colonna sonora.
Se mentre ascolti le tracce, alcune epiche, altre più intime, quasi raccolte, nella tua mente sbocciano i ricordi e fioriscono le emozioni; se ti ricordi di quella luce soffusa, dell’atmosfera amena, di quella roccia lì, con la forma strana, del senso di meraviglia quando, girato un angolo, antiche rovine di civiltà ancestrali si dischiudono alla tua vista in tutta la loro decaduta maestà; se scrivendo un kanji ti tornano alla mente quei sentimenti contrastanti, dapprima di senso dell’avventura, di felicità per la vittoria, della carica che ti dà cavalcare un colosso e abbatterlo, e poi di tristezza, di colpa, quando la storia comincia a dipanarsi e a farti sentire un mostro, allora vuol dire che il gioco HA CENTRATO IL SUO OBIETTIVO.
Come un seme piantato nella terra fertile da un contadino capace e accorto, è rimasto in incubazione, lo hai covato per tanto tempo, e a distanza di mesi la forza inesorabile e incontrastabile della natura lo fa germogliare con una potenza soverchiante dentro di te.
È allora che ti rendi conto della sua inequivocabile grandezza, della sua missione che è compiuta.
Quando un gioco riesce a coltivare le tue emozioni, ad evocare ricordi felici tinti del colore unico e inimitabile della nostalgia, che, diciamolo, nobilita l’arte e rifinisce la bellezza, vuol dire che quel videogioco è l’equivalente nello spirito di quello che nella carne è un viaggio.
E un sentimento viscerale di gratitudine si impossessa di te.
Che belle sensazioni.
Tutti, secondo me, dovrebbero provarle almeno una volta nella vita.

lunedì 15 aprile 2013

Obiettivo Completato

Nulla è come quell'ultima mazzata di spadone sul capoccione di un Rathalos.
Tu non sai che è l'ultima, ma a sorpresa compare la tanto agognata scritta Obiettivo Completato e il cuore ti sobbalza in petto.
E' da mezz'ora che cerchi, rincorri, schivi, rotei un enorme pezzo di acciaio e osso e stavi quasi pensando che quel dragone sputafuoco fosse immortale.
E mentre risuona il clangore metallico dell'armatura del tuo avatar, fuori dalla Psp risuonano le bestemmie e le imprecazioni contro il vermo, che proprio quando sei lì lì per metterlo nel sacco, prende il volo e non atterra finchè non sei deconcentrato.
C'è un momento, quando giochi a Monster Hunter, in cui la sospensione dell'incredulità diventa così potente che cominci a sentire l'avventura attraverso i pori della pelle del cacciatore al di là dello schermo.
Senti il vento, ti acceca la luce, cerchi rocce sotto le quali ripararti dalla pioggia battente.
Diventi un animale, aguzzi la vista, percepisci anche il minimo movimento e la più piccola macchia di colore nel sottobosco, che magari sono i funghi speciali che cercavi.
E quando arriva questo momento ti scopri capace di decifrare e anticipare i comportamenti degli enormi mostri del gioco come un naturalista che da anni studia gli animali: capisci che sono indeboliti dal loro affanno, dalle scalfiture nelle loro corazze, da come si trascinano in modo scomposto.
E sai che è il momento di infierire se li trovi che bevono da un ruscello.
C'è chi dice che il bello di Monster Hunter sia la compagnia.
Io l'ho sempre solo giocato in single player.
Questo alza la curva della difficoltà in maniera esponenziale e ne giova il realismo del gioco, per quanto realistiche possano essere delle sessioni di caccia al drago sputafuoco.
Se il bestione ti carica non ci sono santi, finisci male. Le scosse elettriche, i getti d'acqua a pressione, le meteore infuocate, gli artigli velenosi... devi stare attento a tutto, perchè senza perizia non sopravvivi.
E' così che Mon Han ti diventa un gioco di strategia piuttosto che un action adventure.
Quando sei da solo, a tu per tu con una natura mastodontica e selvaggia che ti prevarica e non manca mai di ricordarti ad ogni occasione qual'è il tuo posto nell'economia delle cose; quando ti trovi a dover sopravvivere in un ambiente ostile, come Bear Grylls ma con armi migliori.
Monster Hunter è vita rurale, avventura, tamarria.
Monster Hunter lo giochi col cuore, prima che con la testa e con le mani: è una macchina che regala piccole grandi emozioni ogni volta che riesci a scalare uno dei suoi ripidi e alti gradini.
Ora è anche in 3D, e non vedo l'ora di fiondarmi di nuovo all'avventura!


Oblivion - La recensione


La mia ragazza non gli avrebbe dato una cicca.
Io dal canto mio pensavo fosse la trasposizione cinematografica di un celebre videogioco. Tanti altri l'hanno pensato.
E invece poi era un film di fantascienza.
Ed anche un bel film.
A vedere il trailer avrei pensato a una cosa fantascientifica buttata un po' sull'horror, tipo "Io sono leggenda" ma con gli alieni.
Invece sono rimasto piacevolmente stupito dall'aver sbagliato previsione.
E lo stesso stupore mi ha accompagnato per tutta la visione del film, che per inciso è la cosa più piena di colpi di scena che vedo sul grande schermo ma da anni tipo.
Di solito riesco bene a prevedere gli sviluppi di una storia perchè di solito le storie che girano oggi sono abbastanza scontate. Qui non ci riesci bene, e se ce la fai ci sono sempre delle riserve.
Oblivion è un film che indubbiamente strizza un sacco di occhiolini agli anni ottanta e al modo di fare cinema che c'era allora, e questa è un'impressione che abbiamo avuto sia io che il mio sodale Baracchi durante tutta la proiezione.
C'è una scena di volo che ricorda molto da vicino Star Wars nelle sue sequenze mitiche alla fine del primo film, quando i caccia ribelli volano sulla Morte Nera; poi c'è l'ambientazione urban, quasi un'officina, dove si sono stabiliti gli Scavenger; ci sono allusioni a Il pianeta delle scimmie, Terminator, Blade Runner, 1984 e forse anche qualcosina di Asimov.

(Che poi ultimamente su internet ANNI 80 sia sinonimo di FIGATA è una cosa che andrebbe discussa. L'assioma non sempre tiene, ANNI 80 non sempre è automaticamente FIGATA, e non sono le citazioni a fare l'opera d'arte. La cosa nasce da qualche blogger molto seguito e molto affezionato all'epoca della sua adolescenza, niente di più.)

In definitiva Oblivion è un bel film.
Però temo che verrà dimenticato abbastanza presto e si perderà nell'anonimato di altre centinaia di pellicole.
La sua colpa?
Non essere uscito negli anni 80.
Perchè quello che penso è che se questo film fosse uscito negli anni 80 avrebbe avuto degli effetti speciali pezzenti ma glie li avrebbero perdonati, e la storia sarebbe piaciuta un sacco, e avrebbe dato 10 a 0 a roba imbarazzante come Alien e La casa, roba che per inciso è considerata capolavoro solo in virtù del fatto che è uscita in quell'epoca, ma che per il resto fa acqua da tutte le parti e al giorno d'oggi verrebbe stroncata da chiunque non sia stato imbrigliato nel principio di auctoritas che ci hanno costruito intorno, e pensi ancora con la sua testa.

Andatelo a vedere? Bo, fate un po' come volete oh.



EDIT: NELLA COLONNA SONORA CI SONO I LED ZEPPELIN.

domenica 14 aprile 2013

Due parole su Game of Thrones


Game of Thrones è un gran bel telefilm. E' fantasy, e a me piace il fantasy.
C'è che però il fantasy del Trono di Spade è una cosa un po' atipica ed effettivamente queste variazioni sul tema sono proprio ciò che mi ha catturato del telefilm e mi ha spinto a compr-coff coff lallallà i libri sul kindle.
Ne parliamo? Parliamone!

1) BE REAL!

Pur amando Tolkien alla follia riconosco che qualche detrattore (al rogo) potrebbe ritenere le sue storie artefatte, forse troppo poetiche, epiche e di classe, quando magari la classe non calza proprio bene alla soldataglia che va alla pugna.
Game of Thrones invece è americano e si vede. Tralasciamo l'accoppiata tutta americana di sesso e sangue espliciti, quello che sconcerta è che se non sapessi che i libri li ha scritti un simpatico cicciottone con i (pochi) capelli bianchi e l'aria gioviale penseresti che si tratti dei vangeli apocrifi di Machiavelli.
Regna in questa epopea un cinismo talmente denso che non lo tagli mica con un grissino. Ma neanche coi coltelli dello Chef Tony, oh.
In Game of Thrones i re non parlano di mitiche stirpi e battaglie lontane nel tempo: vanno a caccia, sono sboccati, trattano male le persone, vanno a puttane alla luce del sole e davanti alle legittime mogli, legittime si, ma mai legittimate a parlare. Sono attori di una politica sicuramente più concreta di quella che si fa a Montecitorio. Insomma è un inno alla realpolitik.
King's Landing, sede del trono del re, è un covo di intrighi e tradimenti e stai sicuro che le cose non si risolvono con una battaglia epica che darà lustro agli eroi nelle ballate delle generazioni a venire; è piuttosto probabile infatti che le situazioni si sblocchino con una pugnalata alle spalle piuttosto che con un'epica battaglia campale. Qua sembra che in contrasto con tutto l'altro fantasy, ogni cosa che possa ricoprire di onore è degradante, andare alla battaglia è una cosa vera, non ne esci mica con l'acconciatura perfettamente intatta: se ti va bene ti mutilano.
Gli eroi sono pochi, molto pochi, in una storia con un cast di personaggi che in confronto Guerra e Pace è Aspettando Godot.
Game of Thrones è l'epica dei topi di fogna. Basti pensare che uno dei personaggi più fighi è un nano (no, non Thorin... un umano normale affetto da nanismo).


2) SENSO DEL FANTASTICO

L'altra cosa che mi ha colpito particolarmente di Game of Thrones è il modo in cui viene trattato l'elemento fantastico.
Sto terminando di guardare or ora la prima stagione, nella quale la magia non compare, tutta la fauna tradizionale della narrativa fantasy, maghi, nani, elfi, troll, goblin, fate, è assente, l'unico vero protagonista è l'uomo, che sembra essere (o voler essere) padrone del suo mondo, pur cedendo saltuariamente a qualche superstizione.
Lungo i primi dieci episodi l'elemento magico compare timidamente qua e là, ma resta comunque un qualcosa di sporadico, che si potrebbe facilmente spiegare con qualcosa di molto terreno e concreto.
Ombre che si muovono veloci nella foresta all'inizio del primo episodio, che potrebbero essere spettri, ma potrebbero essere benissimo delle persone, sogni che hanno tutta l'apparenza di avere dei significati particolari, ma che in fin dei conti potrebbero sempre essere normalissimi sogni, una stirpe che si definisce di "dragoni", dove non ti è ben chiaro se il "dragoni" sia solo un appellativo che designa orrende parrucche o magari qualcos'altro.
A nord c'è questa barriera mastodontica, ma non sai bene perchè è stata eretta, da cosa deve proteggere. Ci sono voci di giganti e ombre che camminano, ma per ora sono solo voci.
Ora mi direte: "Ma come mai ti piace un fantasy che manca praticamente di tutto ciò che caratterizza il genere riducendosi a una fiction sulla fantapolitica medievale?".
Bè, ma naturalmente perchè l'elemento magico arriva, arriva potente come uno schiaffatone, ma arriva graduale, centellinato e in climax.
E la cosa più bella è che è fantastico tanto per te quanto per i personaggi!
Questa è la grande trovata geniale!
L'elemento magico viene vissuto come straordinario, inusuale, meraviglioso, dai personaggi stessi che abitano l'universo di Game of Thrones.
E di questo mi sono reso conto definitivamente in una scena del settimo episodio in cui Jon Snow ha un incontro ravvicinato con un soldato "strano".



In definitiva, sono questi tratti atipici rispetto al fantasy canonico che mi rendono Game of Thrones così interessante!
La sconcertante crudezza, prima delle parole e poi delle azioni, la marea di intrighi e di morti che ti fanno girare le balle (muoiono sempre i migliori. Sempre.), le relazioni incredibilmente complesse che intercorrono tra i vari personaggi che vanno a complicarsi ancora di più tra incesti e corna, l'introduzione graduale dell'elemento magico, percepito come meraviglioso anche dai personaggi stessi, e la multifocalità, che ti permette di avere una sorta di visione a volo d'aquila sugli eventi che coinvolgono i vari personaggi.
Decisamente bello!

venerdì 5 aprile 2013

Ultimate Spider-Man è bello anche senza Peter Parker


Di solito la Marvel non ce la fa. E invece mo ce l’ha fatta.
Non ce la fa a fare le rivoluzioni, intendo. Le fa a metà, le fa ma non ne porta avanti gli effetti, nessuno muore mai per davvero, difficilmente sotto una maschera si avvicendano diverse persone.
Ci hanno provato con Spider-Man (la famosa storia di Octopus che si impossessa di Parker) ed è riuscita a metà, perché dopo sette numeri, oh, incomincia un po’ a stancare sai?!
Ci hanno provato con Ultimate Spider-Man, hanno ucciso l’Uomo Ragno chi sia stato non si sa
(I TSINGARI –chi coglie la citazione è un figo dritto pe dritto e ha diritto a un cappelli omaggio-), e poi hanno inaugurato questa nuova testata che è un po’ un film di Spike Lee coi costumi di carnevale e senza il pollo fritto e le palle da basket (per ora).
Stavolta l’operazione non mi pento di definirla riuscita. Convince di brutto.
Ora.
Sappiamo tutti che Spider-Man è il supereroe che in assoluto è più legato alle proprie origini, si può dire che la sua genesi eroica lo caratterizzi e lo definisca a tutto tondo.
Spider-man ha un forte senso morale, atipico se vogliamo. Per quanto alla Marvel si proponessero di mostrare un supereroe tutto sommato normale, uomo della strada, coi problemi davanti e dietro la maschera, il ragnetto non è per niente una persona normale. Non ha reazioni normali di fronte agli eventi. È troppo buono, troppo comprensivo, troppo poco violento, troppo poco vendicativo, integerrimo, troppo sano di mente.
Un carattere così non si forma da solo.
Ma non si può dire nemmeno che Spider-Man sia solo “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”… non è una frase che ti plasma così nel profondo. Potrebbe.. ma anche no.
È importante chi la dice e come.
Lo zio Ben, padre adottivo di Peter, che non molto tempo dopo aver piazzato la perla che ha cambiato un eroe di carta e tanti eroi comuni di carne e ossa, ci lascia le penne.
E per Peter la morte dello zio Ben sarà fonte di un eterno senso di inadeguatezza nei confronti del mondo intero, della caduta di un’autostima già precaria, di una continua ansia da prestazione volta sempre a superare i limiti, e dell’umano, e del superumano.
Perché quando zio Ben muore, Peter aveva già i suoi poteri, e avrebbe potuto fermare il malintenzionato che lo ha ucciso. E il non averlo fermato è, se vogliamo, l’unica reazione davvero da persona normale agli eventi che gli capitano, al povero liceale sfigato Parker. Il classico “ma si, ma in fondo, ma chi se ne frega”.
Peter e il senso di colpa. Peter e la lezione sulle responsabilità, impartita da un uomo che lo ha amato come un padre, ma in modo se possibile ancora più disinteressato, perché suo padre non era.
Qualcosa di decisamente più complesso della morte dei genitori di Batman e del senso di vendetta che lo spinge a intraprendere la sua crociata.
Poche pagine di storia del fumetto della letteratura mondiale hanno conferito un’impronta così profonda, apprezzata, riconoscibile, che l’intero pianeta si è affezionato al personaggio di Peter, conferendogli automaticamente una sorta di immortalità. Nessun altro può essere Spider-Man, perché non sono tanto i superpoteri a fare l’eroe, quanto la lezione di vita impartita al personaggio umano.
Spider-Man è Peter Parker e nessun altro, e così sia.

Decidere di mettere qualcun altro sotto la maschera è un’operazione rischiosa. Negli anni tanti hanno avuto i poteri ragneschi, ma questo non basta. Ci vuole un certo tipo di persona a vestirne il costume, per fare il supereroe.
Come fare dunque a creare un personaggio così forte e vero, e come inventarsi un modo credibile per fargli elaborare una morale ferrea rinunciando al classico “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”?

Premetto che probabilmente se Doctor Who non avesse incrociato il cammino della mia vita forse avrei storto il naso anche io.
Il Dottore infatti mi ha insegnato a non fossilizzarmi, mi ha insegnato a concepire il transitorio oltre al permanente, mi ha insegnato che anche per gli immortali le cose finiscono, mi ha insegnato ad apprezzare il cambiamento invece di condannarlo a priori. Mi ha insegnato che tanti uomini, anche diversi tra loro, possono ricoprire lo stesso ruolo, e mi ha aiutato ad amare le diversità.

Miles Morales è diverso da Peter Parker. Ma a suo modo è forte uguale.
È un ragazzo normale, non è orfano, si sbatte per entrare in una scuola prestigiosa, sembra timido, e non vuole risaltare. Quando viene preso tramite una lotteria (quindi a sorte) dalla scuola in cui desiderava studiare invece che rallegrarsi si chiede se tutto ciò sia giusto, e guarda i visi degli altri ragazzini che pur avendo dato anima e corpo per prepararsi all’esame di ammissione piangono perché il caso non ha premiato i loro sforzi.
Suo zio è un ladro, ma Miles non lo sa. È piccolo, è ingenuo, e con gli occhi di un bambino lui lo adora, a tal punto da contravvenire al divieto di andarlo a trovare imposto dai suoi genitori.
Ed è proprio in seguito a un furto dello zio Aaron che un ragno di quelli della Oscorp, introdottosi nel borsone da “lavoro” del rapinatore, morde il giovane Morales. Tutto succede a casa dello zio quando il giovane, di nascosto dal padre, lo passa a trovare per raccontargli dell’ammissione a scuola.
Anche Miles riceve una lezione sulla responsabilità, ma qui non c’è zio Ben, e l’artificio che Bendis ha messo in piedi è da pelle d’oca per la sua genialità e per la sua complessità.
Il ruolo dello zio Ben è affidato a due persone, due fratelli, lo zio del giovane protagonista e il padre.
I due vengono da una famiglia povera, da una situazione difficile: nella vita hanno dovuto lottare per sopravvivere e la situazione di benessere beneficiata da Miles è il diretto risultato di queste “lotte”.
Lo zio Aaron, il ladro, gli fa un bel discorso in proposito, in cui gli spiega che da giovani lui e suo fratello non hanno avuto certe opportunità; gli suggerisce, con la saggezza concreta dell’uomo di strada, che deve “studiare, affinchè il mondo non cambi quello che sei, ma al contrario possa essere tu a cambiare il mondo che ti circonda”!
BOOM.
Bel messaggio, in una società basata sulle leggi del condizionamento.
Un messaggio di libertà, di emancipazione, di correttezza.
Mandato da un ladro. Afroamericano. E queste due caratteristiche conferiscono al discorso un che di universale, paradossalmente.
Poi subentra il padre di Miles, che ama-odia suo fratello e che si vede costretto per determinate ragioni, a mettere a parte suo figlio dei segreti dei loro trascorsi.
Entrambi infatti sono finiti in prigione per furti commessi in passato, e qui c’è un altro discorso fenomenale (corredato tra l’altro da soluzioni grafiche decisamente geniali).
“Non è vero che non avevamo opportunità, soltanto, non riuscivamo a vederle. Poi a un certo punto io ho cominciato a intravedere qualcosa, in tua madre, e poi in te; tuo zio invece ha continuato a non vedere nulla e a percorrere la via dell’errore. Io non posso sopportare nella nostra famiglia qualcuno che percorra la via dell’errore e si aggiri intorno a mio figlio. Ho passato ogni singolo giorno della mia vita a cercare di camminare sulla via della correttezza e questo non è per niente facile. È fottutamente più semplice deviare. Ma qui sta la grandezza delle persone, nello svegliarsi tutte le mattine e compiere ogni sforzo per essere retti e onesti”.
BOOM2.
Di nuovo un messaggio esplosivo, di nuovo mandato da un ladro (stavolta redento, però. In un mondo in cui nessuno si redime, nessuno chiede mai scusa, nessuno ammette i propri errori).
Onestà, correttezza, responsabilità, senso morale.
E senza mai ripetere la fatidica frase dello zio ben. In effetti senza che appaia nemmeno una volta la parola responsabilità, che invece è soltanto evocata, un fantasma evanescente ma dalla presenza forte e determinante.

Miles ha poteri analoghi e diversi rispetto a quelli di Peter. Il ragno che lo ha morso aveva altre caratteristiche, per cui oltre a camminare sui muri e ad avere il senso di ragno, il giovane può rendersi invisibile e si ritrova dei pungiglioni velenosi retrattili sulle mani.
Anche il momento della scoperta dei superpoteri racchiude qualcosa di magico, di fenomenale.
Miles ha un amico, Ganke, un asiatico cicciotto nerd fanatico dei lego (ci piace un sacco), ed è l’unica persona a cui confida la sua anomalia.
Perché?
Perché è convinto di essere un mutante e suo padre è un convinto anti-mutante.
Micro-macrotema del razzismo presentato in scatole cinesi.
La famiglia di Morales è afroamericana. Gli afroamericani, per gli americani non afro, sono i negri. Le vittime preferite del razzismo a stelle e strisce. Ora ci sono nuovi negri in città, si chiamano mutanti, e i vecchi negri a loro volta sono diventati razzisti nei confronti dei nuovi negri.
Ed eccoci presentata in salsa supereroistica l’idea che per creare unità e fratellanza basta un nemico comune più grande di noi: un po’ come quando nei film di fantascienza ci presentano una “federazione terrestre” senza più stati ma con un unico popolo su scala planetaria, espediente a cui si ricorre quando si deve fare fronte unito contro una razza aliena. La metafora dell’istintiva chiusura verso l’altro-da-noi.
Insomma che Miles confessa a Ganke di poter essere invisibile e di avere pungiglioni nelle mani pensando di essere un mutante, ed è il buon cinesotto a rivelargli la natura dei suoi poteri ragneschi via sms in seguito a delle ricerche.
La scena è memorabile:
“hai poteri di tipo camaleontico, come alcuni ragni. Hai dei pungiglioni velenosi, come alcuni ragni. Non sei un mutante. Hey amico, scusa, per caso sei Spider-Man?”.
BOOM3.
Ma Spider-Man non era morto?
NOPE.
Perché questi eventi hanno luogo qualche tempo prima della morte di Peter Parker.
Miles è conscio di avere dei poteri, ma un po’ per timidezza, un po’ per la sua tendenza a passare inosservato (amplificata, non credo casualmente, dal potere dell’invisibilità) un po’ per la paura di un padre fermamente antimutante, non ne fa uso.
È un ragazzo che lotta per rivendicare la sua normalità ma gli eventi lo spingono lo stesso a scendere in campo con decisione e mettere i suoi doni al servizio di un fine trascendente, infinitamente più grande di lui.
E quando il ragazzo riceve la notizia che hanno sparato a Spider-Man scappa dal suo dormitorio e raggiunge l’eroe in punto di morte.
Si avvicina a una Gwen in lacrime e le chiede come si chiamasse l’eroe. Altra scena che è una pietra miliare.
Con la morte di Peter qualcosa si risveglia in Miles.
Il giovane prova lo stesso senso di colpa e di responsabilità che provò Peter in occasione della morte dello zio:
“Se avessi fatto uso dei poteri che mi sono stati donati a suo tempo invece che rimanere nella mia stanza per vigliaccheria, avrei potuto essere quel qualcosa che cambia gli eventi, avrei potuto salvare Spider-Man.”
E Ganke lo fa ragionare:
“Tu non c’entri. È possibile che una sorta di karma abbia donato questi poteri a te affinchè in vista della morte dell’Uomo Ragno tu potessi prenderne il posto.”
BOOM4.
Lo “zio Ben” di Miles Morales diventa Spider-Man stesso.
E quando il giovane si reca al funerale dell’eroe con l’amico Ganke, vede passare Gwen e le domanda:
“Cosa lo ha spinto a fare quello che ha fatto?”.
Qui inizia la parte finale e determinante della formazione psicologica e filosofica dell’eroe, con un’infilata di vignette da premio Eisner a fuoco.
(E non ho parlato dell’espressività del disegno di Santa Sara Pichelli Orgoglio Italiano, che è talmente brava a rendere reali le espressioni, che anche senza baloon i suoi disegni parlerebbero chiaramente da soli).
Gwen risponde:
“Perché suo zio, l’uomo che lo ha cresciuto, è morto. Peter pensava che fosse morto perché nonostante egli fosse già in possesso dei suoi poteri non fece niente per evitare che accadesse. Almeno questo pensava Peter. E lo zio gli disse queste parole, sulle quali aveva fondato la sua vita: che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ok?”
Miles, avido, domanda ancora:
“E perché portava una maschera?”
E uno si aspetterebbe una risposta tipo, per proteggere i suoi cari e le persone a lui vicine. Ma questa in effetti sarebbe una risposta da adulto, mentre Gwen è una teenager ed è pure innamorata di Peter. Per cui spiazza, ma in maniera in fondo logica e naturale, rispondendo:
“Perché non aveva bisogno che nessuno sapesse chi era per poter essere un eroe. Ed era fottutamente figo.”
BOOM5.
E poi Gwen riferisce al novello supereroe la lezione di zio Ben per filo e per segno, come ciliegina sulla torta di una formazione psicologica ineccepibile per profondità e ricchezza, che attinge dalla vita vera e dalle cose semplici e concrete. Uguale e diversa rispetto a quella del vecchio ragnetto, ma decisamente potente, fantastica, affascinante, vera.

Era questo l’essenziale. Non sbagliare sulla genesi del personaggio: non banalizzare, non scopiazzare.
Bisognava rendersi conto che Spider-Man, una volta morto, doveva essere qualcun altro, e per qualcun altro intendo qualcun altro, non un Peter Parker disegnato diverso.
Un personaggio tridimensionale, con una sua storia, un suo bagaglio di esperienze e affetti, che fosse del tutto personale; come dice il Buddha, molteplici sono le vie per arrivare alla Verità, ma la Verità resta una sola.
Quindi perché non possono essere molteplici anche le esperienze e le motivazioni e gli avvenimenti che portano un personaggio di carta a diventare un Uomo Ragno, sempre lo stesso Uomo Ragno, buono per antonomasia?
E questo punto nodale, fondamentale, è stato centrato con successo.

Come tanti attori, (ad esempio un vecchio burbero eremita, un adulto apparentemente gioviale con degli inimmaginabili mostri dentro, un giovane uomo di 900 anni che gioca a fare il bambino e si stupisce delle cose del mondo) possono interpretare lo stesso personaggio che da 50 anni viaggia nel tempo e nello spazio in una cabina della polizia color blu, e tutti apprezzano la cosa perché ognuno mette in luce una sfaccettatura diversa dello stesso personaggio senza snaturarlo, perché non possono esserci tanti Uomini Ragno, con tante storie diverse, ma tutti accomunati dall’ardente desiderio di indossare quella maschera e lottare per affermare quante più volte possibile la prevalenza del bene sul male?
Questa per me è l’unica immortalità possibile, decisamente più credibile di uno che non invecchia dopo decenni di storie, o che se muore risorge.