sabato 21 aprile 2012

Le apparenze talvolta ingannano

Ecco come si presenta Madoka quando la si cerca su internet...

ed ecco come dovrebbe presentarsi per rendere l'idea...





In Giappone c’è questo genere di cartoni animati, il majokko sentai, che per intenderci sarebbe quello di Sailor Moon, Doremi, Pretty Cure e simili.
Cioè quello con le ragazzine che si trasformano in maghette e lottano contro mali di varie forme e nature.
Mahou Shojo Madoka Magica si inserisce in questo genere di storie, ma ruota tutto attorno a questo concetto:
prendete l’idea della trasformazione in maghetta, spogliatela di tutta la leggerezza, il divertimento e le risatine di cui l’avete sempre vista abbellita e immaginatela come una condanna a morte; a una morte atroce.
Benvenuti in Mahou Shojo Madoka Magica, che se dovessi definirlo con una sola parola direi PERVERSO.
Questo cartone è la cosa più finemente perversa che io abbia mai visto, più di Battle Royale.
Non si può spiegare quanto sia malato e perverso a meno che non lo si veda, e questo perché basta una parolina o una frasetta o una certa espressione di un viso qua e là che messa a sistema con tutta una serie di elementi rende un quadro distorto e disturbante.
La storia è quella di Kaname Madoka, studentessa delle medie in un Giappone dall’aria vagamente futuribile, e di alcune sue amichette che vengono avvicinate da uno strano animaletto puccioso, Kyubee come succede in ogni majokko sentai degno di questo nome. L’animaletto rimane puccioso finchè sta in silenzio, perché quando parla, pur mantenendo quel sorriso carino che piace tanto alle ragazzine, dice cose così atroci che rimani basito. Non spoilero più di tanto, ma vi basti sapere che quel coso non prova emozioni, quindi durante una conversazione paragona gli umani alle bestie da macello e si stupisce perché le ragazzine si prendano male a sentirlo.
Questo animaletto propone alle bambine delle medie di esaudire un loro desiderio, per quanto sembri irrealizzabile, in cambio però che loro diventino Mahou Shojo (ragazze magiche, letteralmente) e combattano le streghe. La storia prenderà pieghe inaspettate e tramite una discreta serie di colpi di scena sarà capace di stupire lo spettatore nonostante la breve durata di soli 12 episodi.
Menzioni particolari vanno fatte all’armamentario delle maghette, che non combattono con i soliti scettri del cazzo ma con fucili, mitragliatori, cannoni, mortai, bazooka, spade, lance, archi ecc. 
e al comparto grafico della serie, decisamente atipico: il contrasto tra il character design moe e le tematiche dark-horror-tragiche è decisamente centrato, e le sessioni all’interno dei labirinti delle streghe sono qualcosa di mai visto, con effetti visivi fantasiosi e inaspettati.
Piace inoltre che nonostante l’apparenza frivola e leggera, l’anime offra parecchi spunti di riflessione, in special modo sul saper apprezzare la vita, sui desideri e le ambizioni, su come ci si comporti con indifferenza quando percepiamo come distanti le cose dolorose e su come quando queste ci tocchino, il nostro modo di vedere le cose venga stravolto. 
Lo consiglio, tanto è pure breve. 
Vincendo la naturale diffidenza che viene guardando trailer e illustrazioni di questo anime che sembra esclusivamente rivolto alle bambine, troverete un bel gioiellino!



Questo è Kyubee, che con una faccina dolce dolce manda al macello delle bambine delle scuole medie, e si stupisce se si rattristano.

venerdì 13 aprile 2012

"Noi redivivi, Lei redimorta..."

Post flash che mi è venuto da scriverlo sull'onda del sentimento: visto che un paio di blog ne parlano ma nessuno diffonde immagini, ecco a voi la scan della pagina di Jump che annuncia l'imminente uscita di un gioco di Hunter x Hunter per PSP. Una mezza esclusiva st'immagine. E di qui parte una riflessione un attimo più ampia sul fatto che pur essendo ormai in piena nuova generazione portatile, in Giappone si continuino a sfornare capolavori, come gli imminenti Hunter x Hunter e Digimon re: Digitize, l'appena uscito Maho Shojo Madoka Magika e tanti altri, esclusivamente per PSP. Facciamoci due domande, ad esempio sul fatto che questi giochi probabilmente in Italia non vedranno mai la luce, perchè il mercato della vecchia PSP è considerato morto ormai da un anno e mezzo. Roba che non hanno tradotto nemmeno killer applications del calibro di Monster Hunter Portable 3rd e Final Fantasy Type Zero. Voi non nipponisti, sperate nelle traduzioni amatoriali, noi nipponisti, speriamo in amazon o tutt'al più in torrent.
E ora preparate i fazzolettini, che si parte con gli orgasmi.

Prego di tentare di ingrandire ques'immagine perchè la grafica è veramente una figata. sembra da consolle casalinga.


Come sopra. Per godere appieno di scritte incomprensibili e grafica da urlo ingrandite. Se non avete lo sbatti, godetevi l'evidente chara design che fa il verso a Persona, ma meno cupo.

... e ora rimanete senza parole di fronte agli ambienti. e tenete a mente che si sta parlando di consolle portatili.

Dettagli su dettagli, colori e particolari. Fate caso ai contrafforti in ferro che sostengono la tettoia a destra. E vi assicuro che i caratteri sono tutti fatti come si deve, anche quelli dei cartelli.

Le scanalature dell'acciottolato, il grappolo di televisioni.. e i Digimon.

A giudicare dall'icona sopra il testone di Greymon il gioco manterrà la vocazione piuttosto votata all'allevamento più che ad addestramento e combattimento come i Pokèmon..

Ma sembra si combatta pure!

Ricordi di quando eravamo piccoli

La schermata del sito, che è già online

Ecco come appariranno le sequenze dialogiche. 

giovedì 12 aprile 2012

Sensazioni Bellissime

"è una sensazione bellissima"

È un momento della mia vita che rifletto di continuo sulla solitudine.
Nel frattempo mi sono accadute delle cose belle e degne di nota, e c’era l’idea di scriverci qualcosa sopra, ma non sapevo bene come impostare il pezzo…
Ho pensato a qualcosa di commemorativo per il terremoto dell’Aquila, che sono già 3 anni, ma di quello forse parlerò poi.
Ho pensato a mettere gli eventi sotto forma di storia, ma ho scartato l’idea perché qualcosa della concretezza e della realtà del tutto si sarebbe perso per la via.
E quindi fondamentalmente ho deciso di partire dalle mie riflessioni personali su come conduco la vita.
Che nell’ultimo periodo consistono fondamentalmente nell’assunto che mi converrebbe abituarmi a stare solo per via della vita on the road che conduco.
Tutta una serie di pensieri depressivi e sconsolati che non mi capitava di pensare da anni e che mi trovo stupito persino io a concepire.
L’idea è che essendo sempre in viaggio, le mie relazioni interpersonali risentano della mia continua assenza, e che quindi pur essendo circondato da mille persone di mille tipi diversi, avere degli amici è difficile, perché io passando e andando via sono nient’altro che una parentesi nelle vite degli altri, che si apre e si chiude per una settimana, un mese, mai di più.
E la mia mente sta formulando tesi del genere con un’energia piuttosto fuori del comune.
La razionalità ovviamente, mentre costruisco castelli del genere, è altrove. E da quell’altrove mi suggerisce che sto costruendo pile di merda più che castelli; e lo fa riportandomi alla mente episodi, cose e persone che smontano alla base questa mia teoria.
Parecchi stralci di vita sono di Venezia, i ricordi di due persone molto importanti sono a Piacenza, ma quello di cui parlo ora è a Bussi.
La pasquetta come l’ho passata con quei ragazzi è stata una cosa meravigliosa.
Ricevere il messaggio in cui ti domandano se sei della partita mentre stai pulendo casa a Venezia, come se si congiungessero due pianeti agli estremi di una galassia, sapere che sei nella loro mente come loro sono nella tua.
Arrivare a Bussi e farsi trascinare dalle onde dell’entusiasmo dei ragazzi per andare a fare la spesa della scampagnata.
L’organizzazione problematica e gli immancabili disguidi.
Insomma ti senti parte di un tutto, ti sembra di non essertene mai andato, in fin dei conti.
 E poi c’è quel momento, in cui in quattro pisciamo dal terrazzo panoramico di una casa terremotata, giù in strada, con a destra le montagne innevate, a sinistra il paese che discende la collina e tutto intorno a noi la pioggia.
“è una sensazione bellissima” se ne esce uno, e un coro di risate attraversa la notte.
E poi ancora, ridere di me che mi addormento ubriaco abbracciando un secchio nella vana attesa di vomitare, sparare cazzate davanti al fuoco, in una casa senza acqua né luce né gas.
E avevano ragione: è proprio una sensazione bellissima.
È una sensazione bellissima, per me che se mi chiedono da dove vengo è un problema rispondere, sentirsi a casa, a contatto con le proprie radici, pur sapendo che di lì a due giorni dovrai ripartire per un’altra casa, e due giorni dopo per un’altra ancora.
È una sensazione fottutamente bellissima scoprire che nonostante io sia negato a mantenermi in contatto con le persone lontane, loro mi pensino sempre e siano sempre contente di vedermi.
È una sensazione bellissima, portare nella mente la compagnia di qualcuno che è fisicamente lontano, sotto forma di ricordi.
Eppure come mai non riesco a fare a meno di pensare che devo imparare a stare completamente da solo senza mai affidarmi agli altri?

mercoledì 4 aprile 2012

Paletto.

Non se ne vede l'ora


EPIC MOVIE IS EPIC
E questo video lo conferma.
Ovviamente parliamo di The Avengers, l'evento cinefumettistico del decennio.
Vedova Nera mi sembrava il personaggio fatto peggio, perchè Scarlett Johansson ha i capelli più corti ed è più bassina quindi fa un po' effetto salsiccetta.
Poi però vedo questo video.
E capisco due cose:
1) che Scarlett Johansson è veramente figa.
2) che Joss Whedon che ci mette lo zampino e si inventa la scena di liberazione di un prigioniero legato migliore di tutta la cinematografia di sempre, autocitando il suo Buffy con movenze da cacciatrice e paletti è veramente una figata

martedì 3 aprile 2012

La Perfezione esiste

Ed è subito amore.

Ho appena terminato di guardare le prime due stagioni di Sherlock, e tralasciando che ultimamente ho una predilezione per cose e persone inglesi, questo è diventato il mio telefilm preferito di sempre.
Sherlock è un serial tremendamente perfetto, da qualsiasi angolazione lo si guardi.
Io per esempio non sono mai stato un grande amante dei telefilm in genere, un po’ perché sono infiniti, un po’ perché parecchi sono troppo episodici e non avendo una trama di fondo non arrivano a un punto, un po’ perché alla tv italiana fanno solo quelli (più beceri), e poi soprattutto perché non stando sempre attaccato al teleschermo prima o poi succede che mi perdo una puntata e se mi perdo una puntata mi secca non avere perfettamente il filo della storia.
Ebbene Sherlock è speciale anche nel formato: due stagioni, di tre episodi l’una (ad oggi). Ogni episodio dura tra un’ora e venti e un’ora e mezza, quindi si può dire che siano sei film. E per me il fatto che sia piuttosto breve è una manna dal cielo. Anche se onestamente ogni volta che vedi i titoli di coda urli che ne vuoi di più.
Per chi non lo sapesse il concept della serie è tratto a piene mani dalle opere di Sir Arthur Conan Doyle; si può dire che sia una rilettura in tempi moderni del detective di Baker Street. E a questo riguardo sono frequenti le strizzatine d’occhio all’opera originale anche nei momenti in cui l’adattamento è più libero. Ma su questo credo che scriverò in seguito.
Gli attori sono fantastici. Tutti.
Forse il fatto di aver visto l’intera serie in inglese aiuta nel giudizio degli attori.
Benedict Cumberbach che interpreta Sherlock è sublime, sembra fatto apposta per il ruolo. Un po’ Dylan Dog, un po’genio sociopatico, riesce a rendere benissimo l’idea di un detective efficiente quanto eccentrico, la sua espressività è alle stelle e la sua voce è calda e profonda. Un vero piacere ascoltare i suoi ragionamenti alla velocità del suono.
Martin Freeman è John Watson, medico militare reduce dall’Afghanistan, claudicante nella prima puntata, per via di un disturbo psicosomatico che però in seguito si lascerà alle spalle.
A proposito di Watson vorrei spendere qualche parola in più: secondo me infatti il personaggio-Watson è un esempio riuscitissimo di personaggio spalla. E secondo me non è facile scrivere un personaggio spalla: si rischia sempre di sconfinare nell’inutile, nel ridondante e nel ridicolo. Watson invece è un manuale per sceneggiatori: non è una puttana da attenzioni, di quei personaggi che rubano la scena ai protagonisti, e non è nemmeno un elemento trascurabile. Il buon Watson è un protagonista a tutti gli effetti, è determinante in diversi frangenti di diverse avventure pur non essendo brillante come Sherlock nel ragionamento; il suo rapporto con Sherlock, amicizia profonda che nasce gradualmente e che da fuori qualcuno prevenuto scambia per omosessualità, è reso in maniera magistrale. Anche la psicologia di Watson, per quanto non sia il tema portante della serie, viene sviscerata a dovere. È un personaggio che riserva sempre delle sorprese, fino all’ultimo. In breve, ha la stessa funzione del basso in una band musicale: quella nota quasi silenziosa che pur non rubando il palco, col suo lavoro nelle retrovie tiene in piedi il tutto.
Gli altri comprimari sono spettacolari ma un encomio particolare va al cattivone, Jim Moriarty, interpretato da un magistrale Andrew Scott, che possiede una mimica facciale allucinantemente perfetta, e riesce a passare dal riso alla rabbia alla sfida alla calma in poche frazioni di secondo. Davvero un cattivo perfetto, ed un attore che si presta ai toni su cui la serie è impostata.
In ogni puntata nulla è mai lasciato al caso, e l’intera serie sembra obbedire alla regola aurea dello storytelling secondo la quale se compare una pistola, prima o poi quella pistola spara. E non c’è nessuna sbavatura.
Particolare rilievo va dato ai ragionamenti di Sherlock, che sono qualcosa di fantastico.
Ho sempre pensato che sceneggiare un personaggio geniale fosse un’illusione piuttosto difficile da realizzare: i casi infatti sono due, o lo scrittore è più geniale del personaggio, o lo scrittore è abbastanza geniale da simulare un personaggio più geniale di lui. E concepire un’intelligenza superiore alla propria è un po’ come cercare di immaginare un mondo a cinque dimensioni, penso.
Non so a quale di queste due categorie appartengano gli autori, Gatiss e Moffat, ma il risultato, ovvero la creazione di un personaggio geniale, è perfettamente centrato.
Il pregio migliore dei ragionamenti di Sherlock, a mio parere, sta nel fatto che siano ragionamenti (almeno potenzialmente) alla portata di tutti.
Non si tratta mai di geniali intuizioni ingiustificate, vuoi perché fortunose, vuoi perché il protagonista deve sempre vincere. Non c’è un ragionamento che Holmes non spieghi nei minimi dettagli, e l’effetto che provocano in chi guarda non è tanto della serie “come ha fatto”, ma piuttosto “era evidente, come ho fatto a non pensarci prima”. Sherlock infatti parte sempre dall’osservazione e dalla deduzione, e dalle piccole cose arriva alle grandi, costruendo castelli mentali con basi concrete. Per intenderci, non è Detective Conan.
Se però tutti i casi vengono risolti e Holmes fa da guida allo spettatore spiegando come fare, alla fine della seconda stagione c’è un enigma la cui risoluzione è lasciata totalmente a chi guarda, senza alcun tipo di aiuto da parte dei personaggi. E credo che questa sia una trovata geniale, perché è un connotato tipico della narrazione poliziesca, quello che il lettore/spettatore cerchi di risolvere il caso di pari passo, o magari prima del protagonista stesso.
E in questo caso l’ultima parola viene lasciata a te che guardi.
Finito Sherlock, è come se fosse finito un capitolo della mia vita e se ne aprisse un altro. Quella roba ti cambia nel profondo, cambia il tuo modo di pensare.
Per questo, caro lettore, sappi che se ti dovessi vedere di persona comincerei a cercare tracce di farina sulla tua manica o unghie smaltate male, o numeri di telefono sui tuoi fazzoletti, o peli di cane sulle tue caviglie…