martedì 23 aprile 2013

Un buon videogioco




Un buon videogioco è come un viaggio.
Non ti rendi mai conto fino in fondo dell’entità della sua bellezza e del suo impatto sul tuo spirito fin quando non l’hai finito.
Quando sei a Kyoto naturalmente rimani incantato dalla bellezza così eccezionalmente strabiliante di una città tanto profondamente unica al mondo, ma finchè sei lì e la vivi, non potrai fare altro che sintetizzarla dentro di te come un luogo diverso nel comune scorrere della tua vita.
C’è però un momento, quando torni a casa, in cui paradossalmente ti rendi conto della grandezza del tuo vissuto in quei giorni dall’altra parte del mondo. 
È un momento in cui cominci a idealizzare il tuo viaggio, e i luoghi cominciano a ricoprirsi della patina opaca del tempo, della lontananza del ricordo, del sogno.
È in occasioni del genere, quando interiorizzi definitivamente le tue esperienze, che ne riscopri la grandezza e l’importanza capitale nella tua formazione di uomo.
Così è pure per i videogiochi, quelli fatti bene, che non sfigurerebbero in un museo, come opere d’arte.
Shadow of the Colossus è uno di questi.
Il primo impatto con SOTC è indubbiamente meraviglioso. Poi può subentrare la noia, la ripetitività (per quanto sia difficile).
Ti rendi conto però, mesi dopo averlo finito, che ti è entrato dentro, ti ha lasciato qualcosa, ti ha cambiato, quando mentre studi la grammatica giapponese metti nello stereo la sua OST come colonna sonora.
Se mentre ascolti le tracce, alcune epiche, altre più intime, quasi raccolte, nella tua mente sbocciano i ricordi e fioriscono le emozioni; se ti ricordi di quella luce soffusa, dell’atmosfera amena, di quella roccia lì, con la forma strana, del senso di meraviglia quando, girato un angolo, antiche rovine di civiltà ancestrali si dischiudono alla tua vista in tutta la loro decaduta maestà; se scrivendo un kanji ti tornano alla mente quei sentimenti contrastanti, dapprima di senso dell’avventura, di felicità per la vittoria, della carica che ti dà cavalcare un colosso e abbatterlo, e poi di tristezza, di colpa, quando la storia comincia a dipanarsi e a farti sentire un mostro, allora vuol dire che il gioco HA CENTRATO IL SUO OBIETTIVO.
Come un seme piantato nella terra fertile da un contadino capace e accorto, è rimasto in incubazione, lo hai covato per tanto tempo, e a distanza di mesi la forza inesorabile e incontrastabile della natura lo fa germogliare con una potenza soverchiante dentro di te.
È allora che ti rendi conto della sua inequivocabile grandezza, della sua missione che è compiuta.
Quando un gioco riesce a coltivare le tue emozioni, ad evocare ricordi felici tinti del colore unico e inimitabile della nostalgia, che, diciamolo, nobilita l’arte e rifinisce la bellezza, vuol dire che quel videogioco è l’equivalente nello spirito di quello che nella carne è un viaggio.
E un sentimento viscerale di gratitudine si impossessa di te.
Che belle sensazioni.
Tutti, secondo me, dovrebbero provarle almeno una volta nella vita.

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