venerdì 5 aprile 2013

Ultimate Spider-Man è bello anche senza Peter Parker


Di solito la Marvel non ce la fa. E invece mo ce l’ha fatta.
Non ce la fa a fare le rivoluzioni, intendo. Le fa a metà, le fa ma non ne porta avanti gli effetti, nessuno muore mai per davvero, difficilmente sotto una maschera si avvicendano diverse persone.
Ci hanno provato con Spider-Man (la famosa storia di Octopus che si impossessa di Parker) ed è riuscita a metà, perché dopo sette numeri, oh, incomincia un po’ a stancare sai?!
Ci hanno provato con Ultimate Spider-Man, hanno ucciso l’Uomo Ragno chi sia stato non si sa
(I TSINGARI –chi coglie la citazione è un figo dritto pe dritto e ha diritto a un cappelli omaggio-), e poi hanno inaugurato questa nuova testata che è un po’ un film di Spike Lee coi costumi di carnevale e senza il pollo fritto e le palle da basket (per ora).
Stavolta l’operazione non mi pento di definirla riuscita. Convince di brutto.
Ora.
Sappiamo tutti che Spider-Man è il supereroe che in assoluto è più legato alle proprie origini, si può dire che la sua genesi eroica lo caratterizzi e lo definisca a tutto tondo.
Spider-man ha un forte senso morale, atipico se vogliamo. Per quanto alla Marvel si proponessero di mostrare un supereroe tutto sommato normale, uomo della strada, coi problemi davanti e dietro la maschera, il ragnetto non è per niente una persona normale. Non ha reazioni normali di fronte agli eventi. È troppo buono, troppo comprensivo, troppo poco violento, troppo poco vendicativo, integerrimo, troppo sano di mente.
Un carattere così non si forma da solo.
Ma non si può dire nemmeno che Spider-Man sia solo “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”… non è una frase che ti plasma così nel profondo. Potrebbe.. ma anche no.
È importante chi la dice e come.
Lo zio Ben, padre adottivo di Peter, che non molto tempo dopo aver piazzato la perla che ha cambiato un eroe di carta e tanti eroi comuni di carne e ossa, ci lascia le penne.
E per Peter la morte dello zio Ben sarà fonte di un eterno senso di inadeguatezza nei confronti del mondo intero, della caduta di un’autostima già precaria, di una continua ansia da prestazione volta sempre a superare i limiti, e dell’umano, e del superumano.
Perché quando zio Ben muore, Peter aveva già i suoi poteri, e avrebbe potuto fermare il malintenzionato che lo ha ucciso. E il non averlo fermato è, se vogliamo, l’unica reazione davvero da persona normale agli eventi che gli capitano, al povero liceale sfigato Parker. Il classico “ma si, ma in fondo, ma chi se ne frega”.
Peter e il senso di colpa. Peter e la lezione sulle responsabilità, impartita da un uomo che lo ha amato come un padre, ma in modo se possibile ancora più disinteressato, perché suo padre non era.
Qualcosa di decisamente più complesso della morte dei genitori di Batman e del senso di vendetta che lo spinge a intraprendere la sua crociata.
Poche pagine di storia del fumetto della letteratura mondiale hanno conferito un’impronta così profonda, apprezzata, riconoscibile, che l’intero pianeta si è affezionato al personaggio di Peter, conferendogli automaticamente una sorta di immortalità. Nessun altro può essere Spider-Man, perché non sono tanto i superpoteri a fare l’eroe, quanto la lezione di vita impartita al personaggio umano.
Spider-Man è Peter Parker e nessun altro, e così sia.

Decidere di mettere qualcun altro sotto la maschera è un’operazione rischiosa. Negli anni tanti hanno avuto i poteri ragneschi, ma questo non basta. Ci vuole un certo tipo di persona a vestirne il costume, per fare il supereroe.
Come fare dunque a creare un personaggio così forte e vero, e come inventarsi un modo credibile per fargli elaborare una morale ferrea rinunciando al classico “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”?

Premetto che probabilmente se Doctor Who non avesse incrociato il cammino della mia vita forse avrei storto il naso anche io.
Il Dottore infatti mi ha insegnato a non fossilizzarmi, mi ha insegnato a concepire il transitorio oltre al permanente, mi ha insegnato che anche per gli immortali le cose finiscono, mi ha insegnato ad apprezzare il cambiamento invece di condannarlo a priori. Mi ha insegnato che tanti uomini, anche diversi tra loro, possono ricoprire lo stesso ruolo, e mi ha aiutato ad amare le diversità.

Miles Morales è diverso da Peter Parker. Ma a suo modo è forte uguale.
È un ragazzo normale, non è orfano, si sbatte per entrare in una scuola prestigiosa, sembra timido, e non vuole risaltare. Quando viene preso tramite una lotteria (quindi a sorte) dalla scuola in cui desiderava studiare invece che rallegrarsi si chiede se tutto ciò sia giusto, e guarda i visi degli altri ragazzini che pur avendo dato anima e corpo per prepararsi all’esame di ammissione piangono perché il caso non ha premiato i loro sforzi.
Suo zio è un ladro, ma Miles non lo sa. È piccolo, è ingenuo, e con gli occhi di un bambino lui lo adora, a tal punto da contravvenire al divieto di andarlo a trovare imposto dai suoi genitori.
Ed è proprio in seguito a un furto dello zio Aaron che un ragno di quelli della Oscorp, introdottosi nel borsone da “lavoro” del rapinatore, morde il giovane Morales. Tutto succede a casa dello zio quando il giovane, di nascosto dal padre, lo passa a trovare per raccontargli dell’ammissione a scuola.
Anche Miles riceve una lezione sulla responsabilità, ma qui non c’è zio Ben, e l’artificio che Bendis ha messo in piedi è da pelle d’oca per la sua genialità e per la sua complessità.
Il ruolo dello zio Ben è affidato a due persone, due fratelli, lo zio del giovane protagonista e il padre.
I due vengono da una famiglia povera, da una situazione difficile: nella vita hanno dovuto lottare per sopravvivere e la situazione di benessere beneficiata da Miles è il diretto risultato di queste “lotte”.
Lo zio Aaron, il ladro, gli fa un bel discorso in proposito, in cui gli spiega che da giovani lui e suo fratello non hanno avuto certe opportunità; gli suggerisce, con la saggezza concreta dell’uomo di strada, che deve “studiare, affinchè il mondo non cambi quello che sei, ma al contrario possa essere tu a cambiare il mondo che ti circonda”!
BOOM.
Bel messaggio, in una società basata sulle leggi del condizionamento.
Un messaggio di libertà, di emancipazione, di correttezza.
Mandato da un ladro. Afroamericano. E queste due caratteristiche conferiscono al discorso un che di universale, paradossalmente.
Poi subentra il padre di Miles, che ama-odia suo fratello e che si vede costretto per determinate ragioni, a mettere a parte suo figlio dei segreti dei loro trascorsi.
Entrambi infatti sono finiti in prigione per furti commessi in passato, e qui c’è un altro discorso fenomenale (corredato tra l’altro da soluzioni grafiche decisamente geniali).
“Non è vero che non avevamo opportunità, soltanto, non riuscivamo a vederle. Poi a un certo punto io ho cominciato a intravedere qualcosa, in tua madre, e poi in te; tuo zio invece ha continuato a non vedere nulla e a percorrere la via dell’errore. Io non posso sopportare nella nostra famiglia qualcuno che percorra la via dell’errore e si aggiri intorno a mio figlio. Ho passato ogni singolo giorno della mia vita a cercare di camminare sulla via della correttezza e questo non è per niente facile. È fottutamente più semplice deviare. Ma qui sta la grandezza delle persone, nello svegliarsi tutte le mattine e compiere ogni sforzo per essere retti e onesti”.
BOOM2.
Di nuovo un messaggio esplosivo, di nuovo mandato da un ladro (stavolta redento, però. In un mondo in cui nessuno si redime, nessuno chiede mai scusa, nessuno ammette i propri errori).
Onestà, correttezza, responsabilità, senso morale.
E senza mai ripetere la fatidica frase dello zio ben. In effetti senza che appaia nemmeno una volta la parola responsabilità, che invece è soltanto evocata, un fantasma evanescente ma dalla presenza forte e determinante.

Miles ha poteri analoghi e diversi rispetto a quelli di Peter. Il ragno che lo ha morso aveva altre caratteristiche, per cui oltre a camminare sui muri e ad avere il senso di ragno, il giovane può rendersi invisibile e si ritrova dei pungiglioni velenosi retrattili sulle mani.
Anche il momento della scoperta dei superpoteri racchiude qualcosa di magico, di fenomenale.
Miles ha un amico, Ganke, un asiatico cicciotto nerd fanatico dei lego (ci piace un sacco), ed è l’unica persona a cui confida la sua anomalia.
Perché?
Perché è convinto di essere un mutante e suo padre è un convinto anti-mutante.
Micro-macrotema del razzismo presentato in scatole cinesi.
La famiglia di Morales è afroamericana. Gli afroamericani, per gli americani non afro, sono i negri. Le vittime preferite del razzismo a stelle e strisce. Ora ci sono nuovi negri in città, si chiamano mutanti, e i vecchi negri a loro volta sono diventati razzisti nei confronti dei nuovi negri.
Ed eccoci presentata in salsa supereroistica l’idea che per creare unità e fratellanza basta un nemico comune più grande di noi: un po’ come quando nei film di fantascienza ci presentano una “federazione terrestre” senza più stati ma con un unico popolo su scala planetaria, espediente a cui si ricorre quando si deve fare fronte unito contro una razza aliena. La metafora dell’istintiva chiusura verso l’altro-da-noi.
Insomma che Miles confessa a Ganke di poter essere invisibile e di avere pungiglioni nelle mani pensando di essere un mutante, ed è il buon cinesotto a rivelargli la natura dei suoi poteri ragneschi via sms in seguito a delle ricerche.
La scena è memorabile:
“hai poteri di tipo camaleontico, come alcuni ragni. Hai dei pungiglioni velenosi, come alcuni ragni. Non sei un mutante. Hey amico, scusa, per caso sei Spider-Man?”.
BOOM3.
Ma Spider-Man non era morto?
NOPE.
Perché questi eventi hanno luogo qualche tempo prima della morte di Peter Parker.
Miles è conscio di avere dei poteri, ma un po’ per timidezza, un po’ per la sua tendenza a passare inosservato (amplificata, non credo casualmente, dal potere dell’invisibilità) un po’ per la paura di un padre fermamente antimutante, non ne fa uso.
È un ragazzo che lotta per rivendicare la sua normalità ma gli eventi lo spingono lo stesso a scendere in campo con decisione e mettere i suoi doni al servizio di un fine trascendente, infinitamente più grande di lui.
E quando il ragazzo riceve la notizia che hanno sparato a Spider-Man scappa dal suo dormitorio e raggiunge l’eroe in punto di morte.
Si avvicina a una Gwen in lacrime e le chiede come si chiamasse l’eroe. Altra scena che è una pietra miliare.
Con la morte di Peter qualcosa si risveglia in Miles.
Il giovane prova lo stesso senso di colpa e di responsabilità che provò Peter in occasione della morte dello zio:
“Se avessi fatto uso dei poteri che mi sono stati donati a suo tempo invece che rimanere nella mia stanza per vigliaccheria, avrei potuto essere quel qualcosa che cambia gli eventi, avrei potuto salvare Spider-Man.”
E Ganke lo fa ragionare:
“Tu non c’entri. È possibile che una sorta di karma abbia donato questi poteri a te affinchè in vista della morte dell’Uomo Ragno tu potessi prenderne il posto.”
BOOM4.
Lo “zio Ben” di Miles Morales diventa Spider-Man stesso.
E quando il giovane si reca al funerale dell’eroe con l’amico Ganke, vede passare Gwen e le domanda:
“Cosa lo ha spinto a fare quello che ha fatto?”.
Qui inizia la parte finale e determinante della formazione psicologica e filosofica dell’eroe, con un’infilata di vignette da premio Eisner a fuoco.
(E non ho parlato dell’espressività del disegno di Santa Sara Pichelli Orgoglio Italiano, che è talmente brava a rendere reali le espressioni, che anche senza baloon i suoi disegni parlerebbero chiaramente da soli).
Gwen risponde:
“Perché suo zio, l’uomo che lo ha cresciuto, è morto. Peter pensava che fosse morto perché nonostante egli fosse già in possesso dei suoi poteri non fece niente per evitare che accadesse. Almeno questo pensava Peter. E lo zio gli disse queste parole, sulle quali aveva fondato la sua vita: che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ok?”
Miles, avido, domanda ancora:
“E perché portava una maschera?”
E uno si aspetterebbe una risposta tipo, per proteggere i suoi cari e le persone a lui vicine. Ma questa in effetti sarebbe una risposta da adulto, mentre Gwen è una teenager ed è pure innamorata di Peter. Per cui spiazza, ma in maniera in fondo logica e naturale, rispondendo:
“Perché non aveva bisogno che nessuno sapesse chi era per poter essere un eroe. Ed era fottutamente figo.”
BOOM5.
E poi Gwen riferisce al novello supereroe la lezione di zio Ben per filo e per segno, come ciliegina sulla torta di una formazione psicologica ineccepibile per profondità e ricchezza, che attinge dalla vita vera e dalle cose semplici e concrete. Uguale e diversa rispetto a quella del vecchio ragnetto, ma decisamente potente, fantastica, affascinante, vera.

Era questo l’essenziale. Non sbagliare sulla genesi del personaggio: non banalizzare, non scopiazzare.
Bisognava rendersi conto che Spider-Man, una volta morto, doveva essere qualcun altro, e per qualcun altro intendo qualcun altro, non un Peter Parker disegnato diverso.
Un personaggio tridimensionale, con una sua storia, un suo bagaglio di esperienze e affetti, che fosse del tutto personale; come dice il Buddha, molteplici sono le vie per arrivare alla Verità, ma la Verità resta una sola.
Quindi perché non possono essere molteplici anche le esperienze e le motivazioni e gli avvenimenti che portano un personaggio di carta a diventare un Uomo Ragno, sempre lo stesso Uomo Ragno, buono per antonomasia?
E questo punto nodale, fondamentale, è stato centrato con successo.

Come tanti attori, (ad esempio un vecchio burbero eremita, un adulto apparentemente gioviale con degli inimmaginabili mostri dentro, un giovane uomo di 900 anni che gioca a fare il bambino e si stupisce delle cose del mondo) possono interpretare lo stesso personaggio che da 50 anni viaggia nel tempo e nello spazio in una cabina della polizia color blu, e tutti apprezzano la cosa perché ognuno mette in luce una sfaccettatura diversa dello stesso personaggio senza snaturarlo, perché non possono esserci tanti Uomini Ragno, con tante storie diverse, ma tutti accomunati dall’ardente desiderio di indossare quella maschera e lottare per affermare quante più volte possibile la prevalenza del bene sul male?
Questa per me è l’unica immortalità possibile, decisamente più credibile di uno che non invecchia dopo decenni di storie, o che se muore risorge.

2 commenti:

  1. Non è risorgere il problema, è risorgere nello stesso mondo a cui hai rotto i coglioni e che ti ha rotto i coglioni quasi altrettanto - ma questa è roba religiosa. Qui parliamo di fumetti, quindi stiamo seri.

    Non so se sono d'accordo, non ho letto il fumetto, ma gran post.

    RispondiElimina
  2. grazie del complimento^^
    rileggendomi anche io ho pensato a gesù cristo... avrei potuto fare qualche battuta come ho fatto a inizio post, ma poi mi ero preso e niente XD

    RispondiElimina