sabato 24 marzo 2012

L'arte di essere evocativi

Quando da piccolo leggevo le recensioni dei giochi del Game Boy, il voto a cui davo meno importanza era quello del sonoro. Crescendo però ho rivalutato il peso che una buona colonna sonora ha in un videogioco, ma anche in un film o in una serie anime.
Non sono proprio tipo da ascoltarmi la colonna sonora di qualcosa (specie se per dire, ho i Foo Fighters nello stereo) ma questo è un elenco di quelle che preferisco. 

Non è una classifica, è solo un elenco.



I
Dragon Quest VIII, L'odissea del re maledetto
Dragon Quest VIII è un videogioco a cui sono molto legato (come testimonia anche la mia immagine personale) per molti motivi. Proverò qui ad elencarne alcuni: innanzitutto lo giocai in un periodo bello e particolarmente spensierato della mia vita, in quella fetta del mese di giugno che separava la fine della scuola dalla partenza per l'Abruzzo, durante una serie di mattinate soleggiate in cui mi svegliavo tardi. Poi è illustrato da Akira Toriyama, quello di Dragon Ball... e voglio dire... un intero mondo di gioco totalmente esplorabile, tutto disegnato dal Grandissimo, dai castelli agli occhietti dei cani randagi. MERAVIGLIOSO. Ricordo di averlo amato addirittura di più di Final Fantasy X perchè DQ ha qualcosa in più, che poi è l'elemento che maggiormente mi ha colpito e che più mi è rimasto nel cuore di tutto il gioco: il senso di libertà. 

Ricordo mattine ad esplorare campi sconfinati, colline, boschi, villaggi, a parlare con personaggi strambi, a sostare su una scogliera... ed ero tanto emotivamente coinvolto che mi sembrava quasi di sentire il vento nei capelli e di respirare la spuma del mare.
E la colonna sonora si inserisce perfettamente su questa linea di libertà, spensieratezza e atmosfera bucolica. Colonna sonora perfetta da ascoltare durante una passeggiata in primavera o estate.
LOVE IT.



II
Monster Hunter
Di MonHan ho già parlato. Si tratta di un gioco caratterizzato da ambientazioni selvagge, natura incontaminata ed enormi bestie primordiali. La colonna sonora è come l’ultimo tassello di un puzzle che si infila nel suo posto e ci sta a meraviglia. Motivi tribali, rumori della foresta, ai momenti giusti le musiche regalano la giusta tensione. E quando serve diventa veramente epica, un toccasana per caricarti emotivamente mentre stai duellando con un drago sputafuoco!

III
Pirati dei Caraibi
Non c’è che dire.
Credo sia la colonna sonora più fottutamente geniale del decennio.
E la è perché gli inglesi direbbero che è “catchy” ovvero che ti prende, è di quei motivetti che ti si attaccano alla testa e non si scollano neanche a distanza di anni. Poi è facilmente riconoscibile, brilla di luce propria, ha una sua identità. Non ti puoi sbagliare, quando la senti la ricolleghi immediatamente ai pirati. E qui viene il bello: perché il massimo riconoscimento che va fatto a questa colonna sonora è che è davvero evocativa. È perfettamente centrata, puzza di ruhm ed è troppo pirata! Cioè, se il concetto di pirata fosse tradotto con le sette note avremmo quelle melodie: sono fricchettone, canaglie, bohemien, caraibiche e ubriache; comunicano senso dell’avventura, romanticismo, bettole da porto (che non è esattamente un concetto che sia comunicabile, ma ci siamo capiti) e la libertà che solo il mare può regalare. Contribuisce in maniera fondamentale a definire un’ambientazione che è già perfetta. E ti viene voglia di ballare e fare a botte e ti senti a Tortuga.
Yo ho beviamoci su!

IV
Final Fantasy VII
Adoro il gioco, adoro la storia, adoro i personaggi e adoro pure la musica, che sono qui per parlare di questo.
La colonna sonora è immersiva. È caratterizzata talmente bene che sembra essa stessa un personaggio vivo e vitale; FFVII gode di ambientazioni molto diversificate, tra cui la metropoli futuristica, il villaggio minerario in stile inglese, i canyon tipo Stati Uniti, un villaggio in stile tedesco, uno in stile sino-giapponese, uno in montagna ai piedi di un ghiacciaio… e poi si passa di punto in bianco ad ambientazioni come sobborghi, ville, case stregate, fabbriche, appartamenti di soldati, bar sotterranei, foreste, deserti, sottomarini, reattori, tunnel e tanto tanto altro. La musica riesce incredibilmente a tenere il passo coi repentini cambi di ambientazione e lo fa sempre con estrema coerenza e senza mai sembrare innaturale. Ha il grande merito di risultare come la sottolineatura alle righe di un libro, defilata ma presente ed essenziale: nella vita reale non esiste una colonna sonora, cionondimeno ci sono momenti delle nostre vite che li immaginiamo col sottofondo musicale; la colonna sonora di FFVII fa questo effetto: se il gioco fosse la tua vita, l’ipotetica colonna sonora la immagineresti esattamente così, ma pur tenendola al massimo del volume, rimane solo e soltanto un contorno, mai qualcosa che ti distragga.
Piccolo grande accenno alle musiche delle battaglie che sono i sempre amati classiconi della serie FF.
Commento finale?
Non sono mai riuscito a giocare FFVII senza audio. Neanche per un momento. Mi sarebbe sembrato di giocare senza uno dei protagonisti.


V
Shin Megami Tensei Persona 3
C’è tutto e niente da dire riguardo alla o.s.t. di questo fantastico titolo… del gioco parlerò in qualche prossimo post, perché è qualcosa di veramente fenomenale, ma per quanto riguarda la colonna sonora…
bè, il gioco è fondamentalmente diviso in due fasi, una di giorno in cui ci si trova a condurre la vita ordinaria di un liceale giapponese, e una di notte, in cui in parecchi casi ci si troverà a combattere contro bizzarre quanto pericolose entità chiamate shadows. La prima fase del gioco come si può intuire è meno dinamica della seconda.
E qui entra in gioco la colonna sonora, che è costituita da una serie di canzoni. E per canzoni non intendo musiche, ma vere e proprie canzoni, con voce e strumenti e tutto.
Questo è degno di honorable mention, perché un videogioco con una colonna sonora di canzoni vere e proprie, che non fosse uno sportivo, mi mancava. E sono belle canzoni poi, molto orecchiabili.
All’inizio la cosa potrebbe creare un po’ di straniamento, ma con le ore di gioco ci si fa l’abitudine e diventano dannatamente d’atmosfera.
La finezza però sta nell’alternanza canzoni/melodie: le prime sono presenti nelle fasi più statiche del gioco e nei combattimenti più concitati, mentre nelle sezioni esplorative dell’enorme dungeon e durante i passaggi dalla Velvet Room si odono solo melodie.
Sperimentale e decisamente riuscita come colonna sonora.

VI
Il Signore degli Anelli
Una sola parola: commovente.
Ma effettivamente è anche evocativa, epica, dolce, aspra, domestica, selvaggia, familiare, ostile e un sacco di altre cose.
Anche de Il Signore degli Anelli parlerò a parte, perché penso che sia uno dei pinnacoli più alti che la cultura umana abbia mai raggiunto. È uno di quei libri che fra 3-4000 anni si chiederanno se questo J.R.R. Tolkien non fosse un personaggio fittizio, magari lo pseudonimo di tre persone, tali mr. J mr. R e mr. R… magari ci fonderanno una religione.
Ma tornando a noi, la colonna sonora de Il Signore degli Anelli è di classe; è qualcosa di sublime e di perfettamente adatto alla trilogia filmica, che a sua volta trovo essere la miglior trasposizione cinematografica di un libro mai realizzata.
Se i film catturano l’essenza superlativa dei libri, la musica cattura l’essenza superlativa dei film.
Quindi tutto è intonato, accordato in chiave di FANTASTICO.
Se il buon Tolkien ha scritto il corpus dei miti moderni, se ha forgiato l’immaginario collettivo di diverse generazioni di persone, se adesso io penso al fantastico come penso al fantastico lo si deve a lui, e le musiche dei film hanno esattamente una funzione analoga.
Quando le ascolto non sono in casa, in treno, in università, in barca o chissà dove. Quando le ascolto sono tra i boschi millenari, tra le pietre delle fortezze, abitate o diroccate, in una comoda casa hobbit o in una locanda sulla strada polverosa.
Quella musica CREA.
E va adorata per questo.


VIINaruto – prima stagioneDella o.s.t. della prima stagione di Naruto adoro quella maniera così azzeccata di fondere le sonorità del rock moderno e chitarroso all’eco della musica tradizionale nipponica.Questo rispecchia l’estetica di un anime che parla di figure della tradizione giapponese come i ninja, ma li rilegge in chiave moderna e un po’ modaiola.Shamisen, flauti di bambù e urla da tetatro kabuki sono affiancati da assoli di chitarra e incalzanti riff di batteria. È un peccato che una trovata così felice si vada via perdendo con l’andare avanti delle stagioni… A chi piace questo genere di musica, consiglio di ascoltare gli Yoshida Brothers.





Il mandala musicale

Mandala, in giapponese 曼荼羅, è innanzitutto una parola che deriva dal sanscrito, dopodiché è anche uno di quei concetti talmente particolari e “altri” che fanno dannare chi è alle prese con lo studio dell’estremo oriente.
Io credo (ma lo credo molto umilmente e a testa bassa) di aver carpito l’essenza del concetto, ma per quando sia un discreto affabulatore non riuscirei a comunicare quello che credo di aver compreso.
Lascio la parola a personalità decisamente più illustri del sottoscritto come:

Massimo Raveri (OVAZIONE) professore di Storia delle religioni e delle filosofie del Giappone all’Università Ca’ Foscari di Venezia, MIO PROFESSORE, che li descrive così nel suo libro “Itinerari nel sacro”:
“[…] Mandala originariamente in sanscrito significava piattaforma rituale, cerchio, essenza; designava uno spazio sacro a parte e indicava anche in senso più lato un’immagine dell’universo, una teofania. Nel buddhismo tantrico il mandala ha un’importanza fondamentale: è il disegno di tutte le sfaccettature della perfezione della buddhità, del regno dell’illuminazione. […]”

Massimo Raveri
Fosco Maraini, grande giornalista italiano, innamorato del Giappone e della montagna, uno dei più grandi orientalisti del mondo, descrive i mandala con grande poesia:
Immense cattedrali di pensiero si organizzano in mandala, mappe del cosmo, quasi spartiti musicali dell’universo, dove la sintassi delle emanazioni, delle manifestazioni, delle incarnazioni, si presenta con la topografia concentrica dei fiori e dei cristalli”.


Fosco Maraini
Infine le immagini dei mandala Kongokai (del mondo diamantino) e Taizokai (dell’utero).
Questi due sono conservati al
Tōji di Kyoto e i monaci vi meditavano di fronte cercando di afferrare le geografie nascoste dell’universo spirituale e fisico. Insomma di fronte a queste immagini si cercava di afferrare la totalità delle cose, l’assoluto.

La qualità non è eccellente ma non ho potuto trovare di meglio: i mandala del Toji
Io ascolto la musica con diversi sensi, non solo con l’udito.
Per me la musica è un’esperienza totalizzante, e ciò che apprezzo di più nelle canzoni non è la melodia o il virtuosismo dei musicisti (che pure fa piacere) bensì la capacità che hanno di farmi immaginare, sognare, vivere in altri mondi, evocare paesaggi e immagini mentali.
Ho alcuni dischi che eccellono in questa capacità di sublimare la mera musica in un’esperienza spirituale multisensoriale, quasi mistica.
Ma quello che secondo me è più geniale, sotto ogni punto di vista, è Wish you were here dei Pink Floyd, che io definisco un mandala musicale, proprio perché riassume in sé il principio fondativo del mandala: racchiudere l’assoluto in un medium che sia comprensibile all’uomo.

La geniale copertina di Wish you were here

venerdì 23 marzo 2012

Sulla poesia

Zen: rendere la complessità del tutto nell'estrema semplicità di un cerchio

Prima di presentare questo pezzo che scrissi tempo fa, mi par doveroso allegare qualche precisazione.
1) Ho scritto di getto queste righe mentre stavo studiando il Foscolo per un esame all'università e, sì, in caso ve lo stiate domandando, io studio lingue orientali. E, no, in caso ve lo stiate domandando, non lo so neanche io perchè mi tocchi studiare Foscolo se voglio laurearmi in lingua giapponese. Di qui la ferocia della mia invettiva.
2) Io stesso rileggendo ho notato la presenza di alcune inesattezze, che potrebbero venir notate da altri occhi clinici. Me ne frego, e pubblico lo stesso tutto quanto perchè sempre rileggendo, il pezzo mantiene secondo me la forza tagliente con cui è stato scritto, e quindi mi piace.
3) Nelle etichette trovate la voce Sesi Che Si Imbroscìnano. ora... non sono veramente sicuro che si dica da qualche parte, ma all'interno di una cerchia di amici miei l'espressione designa fondamentalmente chi se la tira. In ispecial modo, chi se la tira senza avere gli elementi per poterlo fare. Quindi fondamentalmente un coglione che starnazza come se fosse il grande saggio della situazione. Quindi fondamentalmente in questo caso Foscolo.
E ora possiamo cominciare^^

Nella vita c'è una cosa che non capisco.
Gli uomini di lettere occidentali oltre a scrivere le loro opere, sembra che abbiano sempre avuto questa particolare esigenza di incasellarle, e sull'argomento hanno scritto altre opere. Si sono scannati sulle distinzioni tra poesia, lirica, epica, elegia, sonetti, odi, romanzi e via discorrendo, e ogni poeta pretendeva nel suo piccolo mondo mentale di essere la risposta definitiva alla Domanda (quale domanda poi?) immaginando di portare un’epocale rivoluzione nel mondo della letteratura, e negando con forza come sbagliati o parziali tutti i precedenti esistenti.
Foscolo ad esempio è considerato tra i più grandi letterati italiani.
Sentirlo dissertare con toni accesi su cosa sia la poesia vera e su quanto sbagli tutto il resto del mondo a pensare che un sonetto d’amore rientri nella suddetta, con argomentazioni inquietantemente simili a quelle dei bimbiminchia che sulla rete si scannano sui generi del rock lo trovo decisamente imbarazzante.
Su tanti livelli.
Come studente, come cervello pensante, come amante della poesia, come Italiano.
Approcciandomi alla cultura occidentale e al modo in cui nei secoli è stata gestita, mi rendo sempre di più conto del senso vero e proprio delle parole di LaoZi  riguardo all’essere antiaccademici e “gettare via la sapienza”.
La filosofia, in particolare quella aristotelica, ha fatto un sacco di danni alla cultura occidentale, perché è degenerata in una forma di auctoritas affine per tanti (troppi) tratti alla religione: in pratica si è tradotta in una morsa per le coscienze, in un giogo per le menti. Invece di porsi come stimolo al pensiero si è posta come limitazione, castrazione dell’attività cognitiva. E quindi ci si è persi per secoli a farsi le pippe mentali su cosa fosse il teatro classico secondo aristotele, mentre in una remota isola a nord shakespeare inventava il teatro per come lo conosciamo oggi.
La filosofia di Aristotele tiene connaturato in sé il germe di un errore epocale che purtroppo si è sviluppato nel tempo: questa mania ossessiva di classificare e incasellare designa un tentativo, goffo, controproducente, idiota e pericoloso, di innalzare l’uomo un gradino al di sopra della Natura. Lo sguardo di un filosofo che cerca di disporre secondo i suoi parametri la natura e che cerca di riordinare i suoi schemi da un punto di vista prettamente personale (e quindi umano) è uno sguardo dall’alto in basso, che a un uomo non è permesso nei confronti della Natura.
Il grande merito del pensiero orientale è l’aver capito che l’uomo è parte della Natura, non suo demiurgo ideologico.
Pertanto un poeta giapponese non si chiede cos’è la poesia, e non scrive libri sull’argomento.
La fa e basta.
E corta. Senza inutili ampollosità e ridondanze barocche. Tre versi.
Credo che la bravura di un letterato stia anche in questo: di rendere la complessità dell’universo così, con poche parole, ma di un’incisività tale da creare un paesaggio mentale quanto mai nitido in chi legge.
Se l’uomo è capace di fare la poesia non c’è bisogno di chiedersi cosa sia e perché la fa.
Bisogna prenderla così, come viene, e apprezzare il momento di BELLEZZA che questa porta nelle nostre vite.
La poesia è una delle tante (e delle più belle) espressioni della Natura, proprio come un filo d’erba, una nuvola, dei sassi levigati dall’acqua.
“la poesia ha come seme il cuore dell’uomo e si espande in mille foglie di parole”. 

Buon riposo ZiaNonna

Questo è Bussi sul Tirino, benvenuti a tutti.



La triste dipartita della sorella gemella della mia nonnina è stata per me spunto di numerose riflessioni. 
La gemella in questione, che io chiamavo zia-nonna dato che era proprio uguale alla mia nonna, ma nonna non era, appartiene a quella categoria di persone che studi nei libri di storia: gli emigranti. A lei toccò andare in Australia, a Melbourne.
Sul manifesto funebre affisso in paese qui in Italia trovavi scritto "deceduta ad Ascot Vale, Australia"... e fa strano. Perchè io la mia nonnina ormai novantenne sono abituato ad associarla alla casa di Bussi, e al limite, in ricordi di almeno 10-15 anni fa, ai viaggi che faceva in treno per venirmi a trovare a Piacenza. Comunque, mai all'altra parte del mondo.
In seguito al triste evento però i nonni si sono lanciati nel racconto di ricordi lontani che ti mettono le vertigini; sentite un po':
Taton', ovvero il babbo della mia nonnina, andò a New York come emigrante ma sulla strada, dopo numerose settimane di nave, si imbattè in un grosso transatlantico che stava affondando... Taton' era a bordo di una delle prime navi che prestarono soccorso al Titanic. Solo dopo arrivò a New York.
Nonno Biagio invece emigrò in Venezuela (e questo lo sapevo) come zio Pasqualino (fratello di nonna); ero in vacanza studio in Inghilterra, anni fa, e il mio coinquilino era spagnolo. Quando, durante una telefonata, nonno lo seppe, volle parlarci, e ci parlò in spagnolo, capendo e facendosi capire. Nello stupore generale, oserei dire... perchè nonno a scuola praticamente non c'è mai andato, e conosce poco anche l'italiano, ma è sempre stato svelto a imparare le cose con l'esperienza. Anche le lingue evidentemente. Lo stesso nonno Biagio, ho scoperto che andò a lavorare anche in Francia e in Belgio (vicino Marcinelle, dove morirono tanti compaesani nel crollo delle miniere) e dove ha ancora una sorella; e fu anche il primo della famiglia a mangiare cinese: ricordo che passando davanti al ristorante cinese di Sulmona gli feci vedere i caratteri che ne componevano il nome e li lessi. Nonno per tutta risposta mi disse: "i c' so magnàt aji cinesi, alla venezuela. cacc vota i so pur ajutat a sciacquà i piatt, o j so purtat u pesc fresc. ficevan cert patan cuscì bbon ca nn m l so magnat a nisciun autra part".
Mi sono spesso domandato se zia Giovannina (la zia-nonna) parlasse o ascoltasse la messa in Inglese. Pare che fosse anche piuttosto spigliata, tanto da litigare con un "chemist" per farsi ridare il resto giusto del pagamento delle medicine! Inoltre scopro che nei fine settimana si ritrovava spesso con gli altri emigranti italiani alla sala bingo!
La storia del viaggio di zia-nonna fu alquanto rocambolesca: partì dall'Italia nel '56, l'anno famoso della nevicata (che è stata eguagliata da quella di qualche mese fa). Si sposò per corrispondenza prima di partire, con un signore siciliano che raccoglieva la frutta in australia e partì con la nave. Il canale di Suez all'epoca era chiuso, quindi zia-nonna dovette circumnavigare l'Africa e arrivò in Australia parecchio tempo dopo altri emigranti che partirono settimane dopo dall'Italia, ma trovarono percorribile il canale.
Il mio paese, Bussi sul Tirino, è un po' tutto così, pieno di queste storie di gente che ha girato il mondo e tu non lo diresti, visto che è un centro abitato, sperso nel mezzo dell'Abruzzo, nel mezzo dell'Italia, in mezzo al nulla, di meno di 3000 persone, in maggior parte vecchietti.
La bottegaia della strada sotto la mia, Franca, è stata tanti anni in Sud Africa, e ha parenti in Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ha anche dei cugini a San Francisco, che hanno pure vissuto anni in Giappone.
La mamma dell'orefice, poche case più in là dalla mia, la soprannominano "l'amrcana" perchè è stata tanto tempo negli Stati Uniti (Boston, credo...) ed è stata la prima a consigliarmi di provare la cucina tailandese, che lei assaggiò in America e di cui si innamorò. Alle volte noi giovani di oggi, nati nel benessere, pensiamo con superbia di aver visto di tutto e di aver fatto ogni genere di esperienza, perchè le possibilità che ci sono concesse ce lo permettono. Io stesso tante volte mi sono trovato a pensare di parlare una lingua diversa da quella dei miei nonni, e di dover semplificare i miei racconti per adattarli alla loro sensibilità, antiquata o presunta tale.
Ma riflettendo meglio, mi sono accorto che in realtà sono loro, i miei nonni e i loro amici, ad avere tanto da dire, e a fare fatica per adattare i racconti delle loro esperienze, o meglio delle loro IMPRESE, per farli comprendere a noi "bamboccioni" che alla fine nella vita non abbiamo fatto granchè, e se ci è andata bene siamo andati a un corso di inglese per stranieri, due settimane in Inghilterra. Mi sono sentito ORGOGLIOSO DELLE MIE RADICI (ma alla fine lo sono sempre stato) e per l'ennesima volta mi sono accorto che è molto facile che la realtà superi la fantasia del migliore dei romanzi di avventura.
Io quello che hanno fatto i miei nonni, lo posso solo sognare.
E continuerò a sognarlo per tenere vivo il ricordo delle GRANDI DONNE e dei GRANDI UOMINI che faticando in giro per il mondo hanno posto le basi dell'ovatta in cui siamo nati.
Buon riposo zia-nonna! Sei stata grande!!!
 

Ho finito Metal Slug 2

Ho un amico nel business della ristorazione ad alti livelli. È uno chef di prima categoria, presente sulle migliori guide e che ha vinto diversi concorsi di cucina in Italia e all’estero.
Da lui ho provato la bistecca Kobe, la Pregiatissima.
Quella che massaggiano la mucca con la birra e le fanno sentire la musica classica e le fanno mangiare solo erbe di prima qualità che crescono nella regione di Kobe, Giappone, e che in effetti solo i Giapponesi potevano massaggiare una mucca con la birra per far concentrare il grasso all’interno e non all’esterno della carne.
Perché dico questo?
Perché sebbene il mio amico chef sia solito inventarsi accostamenti sempre nuovi, di dolce e salato, di carne e frutta, di marmellate dolci e salate da proporre con quaglie o cavallo o altre delizie per così dire non proprio ovvie, la Kobe la presenta così: carne e patate.
Mi ha confidato di aver tentato diversi accostamenti, ma quella bistecca è talmente prelibata che il valore aggiunto glie lo dà la semplicità.
Tutto ciò era per spiegare il titolo.
Che non è per niente ad effetto, ma che proprio per questo secondo me è incisivo.
Scrivo questo pezzo di getto, a caldo.
Ho appena finito Metal Slug 2.
Non conosco nessuno così pro da aver finito quel videogioco in sala giochi. Io infatti l’ho finito sulla psp rinascendo svariate volte.
Quello che conta è che ho visto la fine.
E quello che ho visto mi ha commosso, per diversi motivi.
Primo, perché quel giochino mi ha fatto gioire e dannare una vita intera; e mi ricordo le mattine al bar della spiaggia a giocare a quel gioco e a cercare di battere i record degli amici, o almeno sopravvivere fino al quarto livello!
Davo il buongiorno al mondo arrivando al bar dello stabilimento e fiondando quel gettone nella macchinetta.
Mi ricordo la mamma che mi imponeva al massimo 2 gettoni di partita al giorno, ma poi era sempre qualcuno in più. Mi ricordo il gusto di giocare al bar, con 500 lire, mentre invece i bambini di adesso niente niente giocano ai videopoker perché nei bar ci sono solo quelli.
E poi mi sono commosso per come finisce.
Metal Slug non ha una storia.
Si tratta solo di ammazzare un sacco di soldatini simil-nazi in giro per ambientazioni disegnate benissimo, con personaggi disegnati benissimo, che ancora oggi tanti giochi li fa impallidire in quanto a gusto grafico.
Ci sono tante armi, ci sono i vecchietti biondi e con la barba che devi liberare, ci sono i mecha che devi pilotare e le megamacchine che sono i boss di fine livello.
Un massacro a scorrimento: semplice e fottutamente divertente.
Ebbene, dopo aver massacrato arabi, mummie, nazi, nazi in moto, nazi in aereo, nazi in motoscafo, nazi in treno, nazi in cina, zombie in città e altre simpaticherie affini, si arriva all’ultimo livello.
Ambientazione: onestamente non l’ho vista molto bene, dato il fuoco infinito dei soldatini in verde che riempie lo schermo, ma sembra essere un posto freddo, tipo polo nord, perché ai personaggi esce il fumo dalla bocca (è un gioco del 1998 e il dettaglio grafico è tale che ai personaggi esce il vapore dalla bocca, roba da pazzi!).
Dopo aver massacrato orde di carne da macello in divisa da ss, compare il solito energumeno che sembra uscito direttamente dall’A-team, quello pelato col mitraglione che lancia le bombe rosso-blu. Dopo averlo crivellato fino a fargli cambiare colore (da bianco diventa rosso) il nostro nemico cade da una rupe e viene mangiato da un’orca (WHAT DA FUCK?!?!?!).
Era forte come un boss di fine livello quel figlio di puttana, ma non è finita, la strada per la vittoria è ancora lunga. Sicchè inforchiamo un tunnel e ci ritroviamo in uno spazio che sembra un porto sotterraneo, con delle navi e altra roba tecnologica che non hai tanto tempo di ammirare vista l’azione concitata all’estremo.
Poi qualcosa si muove dalla parte destra dello schermo. Sembra una medusa ma…
ma si cominciano a vedere degli affari nel paesaggio che hanno tutta l’aria di essere dei cazzo di ufo.
E allora quelle simil meduse si rivelano ALIENI!
E già qui è orgasmo in sanscrito.
Gli alieni hanno delle cazzo di pistole che sembrano sparare atomi rossi o blu, che per quanto possono cercano di seguirti e sterminarti. Ma durano poco di fronte alla nostra potenza di fuoco (ma soprattutto di fronte alla nostra immortalità. Grazie consolle che non vai a gettoni!).
E all’uscita dal tunnel comincia la commozione: l’ultimo boss.
Che è un carrarmato con sopra il capo dei soldatini simil-nazi, un simil-hitler sorridente che sembra essere agguerrito.
Ma quel carrarmato è troppo piccolo per essere il boss finale, non convince.
E infatti dal cielo piove questo UFO A PALLA (un ufo a palla ok? Un cazzo di ufo a palla) che fulmina i soldatini e rapisce simil-hitler con un raggio azzurro.
WOW.
L’ufo a palla ha una bocca da cui emette a rotazione altri piccoli ufo guidati dagli alieni medusa e raggi che fanno male.
Alla lunga si sconfigge anche la palla. Ma pur essendo precipitata non sembra essere scalfita minimamente dalle nostre armi. E infatti arriva una MEGA ASTRONAVE che se Metal Slug 2 fosse un film sarebbe Indipendence Day, la quale incorpora la palla che ci eravamo fatti in quattro per distruggere e la usa come cannone.
E qui succede l’inaspettato.
Compaiono soldatini verdi e carrarmati, che ti metti le mani nei capelli perché non sai che pesci prendere, sovrastato dalla “morte nera” e circondato dai nazi.
E quando ti metti a sparare ai nazi ti accorgi della sorpresa: non muoiono. Sono diventati immortali?
NO.
I nemici di una vita ti stanno aiutando!
Soldatini, carrarmati, perfino un furgone che ti porta il carrarmatino da pilotare. I nemici giurati di una vita di missioni (e di una vita di giocatore fuori dallo schermo) ti stanno aiutando e sparano e si fanno massacrare dagli alieni per salvare il mondo (o il proprio capo).
E allora tu combatti con la lacrimuccia, perché quasi quindici anni dopo scopri che i simil-nazi che hai passato l’infanzia a sterminare erano pixel dal cuore d’oro, in fondo.
E quando finalmente hai sferrato il colpo di grazia all’”enterprise” un aereoplanino dei simil-nazi si lancia nella bocca del cannone e fa esplodere tutto.
SPIRITO DI SACRIFICIO, OK?
Quando ero piccolo io non lo sapevo che un paio di livelli più in là, quello che fino a pochi minuti prima era il tuo nemico, che gli avresti fatto lo sgambetto se lo avessi visto per strada, si sarebbe sacrificato per salvarti il culo e il mondo.
Finalino comico: di tutta l’astronave precipita a terra solo un pezzo di lamiera con legato il simil-hitler. I soldatini gioiscono, ma il pezzo di lamiera si capovolge e schiaccia il vil marrano, ponendo fine a una vita di malefatte nel cascamento mascelle generale.
Che dire, EPICO.
E poi furono i credits…




Simil-hitler ride... ma il boss finale non è un po' piccino?...

... e infatti viene brutalmente distrutto dagli alieni, e simil-hitler rapito con le braghe stracciate...

... ecco la palla...

... ed eccola esplodere...

... ma non è finita, ed ecco che arriva l'astronave madre...

... ma abbiamo un aiutante inaspettato...

... che ci porta pure lo slug...

... e a fine lotta...

... un kamikaze ci salva la vita...

... e sono fuochi d'artificio...

... simil-hitler torna da noi come un angelo...

... ma qualcosa va storto...

... e nello sgomento dei suoi soldatini, crepa spiaccicato di faccia...

... FIN.

domenica 18 marzo 2012

Antico

Foto fatta da me di una fontana a Kyoto

Penso che il Giappone sia l’unico posto nel mondo del quale si possa ancora dire che è antico.
Per davvero.
Proprio quel Giappone che il mondo conosce come iper-avanzato, sempre un passo avanti al resto del mondo per quanto riguarda gli ultimi ritrovati tecnologici.
È inequivocabile che nel Paese del Sol Levante si trovino altissimi grattacieli, autostrade urbane, ristoranti in metropolitana e linee ferroviarie soprelevate, ma per affermare la mia teoria mi baso su elementi come quelli presenti in queste foto.
Trovo che il Giappone si sia mantenuto antico perché nonostante l’apertura (in alcuni momenti storici “forzata”) all’occidente è riuscito nella difficile impresa di conservare tutti i tratti storico-culturali della sua specificità. Per farla breve, anche in un grattacielo, per quanto espressione dei prodigi architettonici americani, si riconosce una componente intrinsecamente nipponica e si avverte una sottile ma importante differenza tra una torre di vetro e cemento a Osaka e a Miami. Fidatevi di me, che ho visto entrambe le città.
Un po’ tutto il Giappone si trova nella situazione della città di Roma, ovvero in quella continua tensione volta a ricercare l’equilibrio migliore per far convivere l'area urbana moderna e le vestigia di una cultura antica che costituisce le fondamenta di quella di oggi.
Il Professor Aldo Tollini dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, scrive in un suo libro che la cultura giapponese è l’unica nel mondo che non concepisce l’assunto secondo il quale il nuovo soppianti il vecchio in quanto migliore; la cultura nipponica è sempre aperta al nuovo e al diverso e dopo un attento esame ne conserva le parti migliori, affiancandole a ciò che di meglio già c’era, non cancellando il passato e svestendo i panni di un’identità. Questo spiegherebbe le consistenti stratificazioni linguistiche del Giapponese (e quello che oggi sta succedendo coi vocaboli inglesi importati), lo stile architettonico tradizionale basato sull’asimmetria e la giustapposizione, e molti altri assunti dell’estetica nipponica.
In Giappone vedere una donna in kimono nella moderna metropolitana non viene vissuto come qualcosa di stridente.
Il Paese del Sol Levante è riuscito a portare a termine con successo l’impresa di diventare uno Stato moderno pur senza svendere la propria identità. Ed è per questo che accanto alle grandi industrie, da quella automobilistica, a quella dei computer, a quella dei robot, a quella dell’animazione, a quella del videogioco, convive ancora l’artigianato locale, fedele alla tradizione; e a fianco alle nuove tendenze dei quartieri del centro di Tokyo, che dettano le mode a tutto il mondo, troviamo ancora le antiche arti e cerimonie che gettano le loro radici nel Giappone medievale.
Le immagini di questo tempietto dedicato alle volpi secondo me sono emblematiche di questa capacità tutta giapponese di sposare la modernità pur rimanendo fermamente in linea con un passato millenario: sulla strada tra la avveniristica stazione dei treni di Kyoto e il tempio buddhista Touji, racchiuso a mo’ di scrigno tra alti palazzi grigio cemento, si trova questo minuscolo fazzoletto di terra che sembra essere sopravvissuto con tenacia alla modernizzazione… un luogo che sembra sospeso tra lo spazio e il tempo. E che non stona con la downtown che lo circonda.
Amo il Giappone.
Lo amo con tutto il cuore.



Un piccolo santuario Shinto in mezzo ai palazzi di Kyoto





Cast away...

Nostalgia nel rivedere il packaging dei vecchi giochi Game Boy


Grazie al mio cellulare con sistema operativo Android, ho la fortuna di poter usufruire di un emulatore per giochi del Game Boy Color.
Ringrazio Android e mi metto a cercare le rom di alcuni giochi che possiedo in originale e che vorrei rigiocare.
Tra i vari Pokèmon, Zelda e Super Mario, il primo che mi sono recuperato si chiama Stranded Kids e forse non lo ricorderanno in molti… poco male, perché sono qui per parlare apposta di questo!
Stranded Kids è un piccolo tesoro che ci ha regalato la Konami nel lontano 1999;
si tratta di un gdr modellato sulla grafica e il gameplay del più illustre The legend of Zelda Link’s Awakening (un altro amore videoludico della mia vita) ma se oggi sono qui a recensire SK e non Zelda è perché dal mio punto di vista quel gioco è ammirevole su tanti livelli che non sarebbe fuori luogo definirlo rivoluzionario.
Premetto che non voglio fare il nostalgico, ma al giorno d’oggi si dice che la creatività dell’industria videoludica sia morta, ammazzata dalla prassi di clonare i videogiochi di successo e di lavorare sull’esasperazione dell’ultra-grafica a scapito della trama.
Stranded Kids a questo proposito si presenta come un trampolino di lancio perfetto per sviscerare l’argomento: è l’esempio per eccellenza della vitalità e dell’originalità dei videogiochi all’epoca in cui la grafica era 2D a 8bit.





La grafica di gioco




Ma parliamo finalmente del gioco vero e proprio: dopo la scelta del sesso del protagonista (ricordo che era il ’99 e per attendere la possibilità di scegliere il sesso del protagonista nel più famoso Pokèmon si sarebbe dovuto aspettare il 2005 con Rubino e Zaffiro) una serie di schermate e dialoghi ci introducono all’incipit della storia, quella di un papà avventuroso che per il decimo compleanno del figlio/a lo porta a navigare e gli regala un coltello; il mare è calmo, ma durante la notte le condizioni atmosferiche cambiano, e la nave fa naufragio. Al mattino il/la protagonista si sveglia sulla spiaggia di un’isola e si mette alla ricerca del papà.
Se facciamo finta di non fare caso a qualche gossolana ingenuità, come il fatto che padre e figlio/a pilotino da soli una nave delle dimensioni di un transatlantico e ci concentriamo sul concept semplice ma innovativo del gioco, rimaniamo abbagliati dalla genialità di Stranded Kids.
L’idea di un survival in cui non bisognasse sopravvivere a orde di zombie o mostri o quant’altro ma semplicemente alla natura stessa di un’isola deserta non era mai stata sfruttata, e non la è più stata dopo SK, se non per i sequel, ai quali però non ho giocato.
Stranded Kids a dispetto della grafica obbligatoriamente semplice visti i tempi, nasconde una profondità e una complessità che spesso non sono state raggiunte neanche su consolle di nuova generazione: le statistiche di cui tener conto per esempio non si riducono semplicemente alla vita del personaggio, ma bisognerà controllare anche i suoi bisogni primari come fame, sete e fatica. D’altra parte è un survival.
Bisognerà esplorare l’isola alla ricerca di un papà che forse nemmeno troveremo, ma non siamo super eroi né guerrieri invincibili, quindi dovremo dormire e mangiare.
In un’isola deserta dato che non esistono supermarket saremo noi a doverci procacciare il cibo: possiamo andare alla ricerca di molluschi, erbe, funghi (non tutti commestibili però, quindi attenzione!) e anche selvaggina (ma non tutti gli animali sono aggressivi allo stesso modo, quindi se sarà facile uccidere una rana, non sarà così facile uccidere un giaguaro e pertanto converrà nascondersi o fuggire); infine, il cibo nella maggior parte dei casi ha bisogno di essere cotto, e la carne cruda in caso la si voglia conservare, bisognerà salarla.
Durante le sessioni esplorative, possono cambiare le condizioni atmosferiche, e questo talvolta influirà sulla geografia dell’isola e sulle condizioni fisiche del nostro protagonista.
Infine il gioco implementa una componente di crafting di primaria importanza, e mi pare che sia l’unico caso per quanto riguarda il parco games del Game Boy Color…
Ah, per chi non lo sapesse il crafting, presente in quantità massiccia negli MMORPG degli ultimi anni, è quel sistema che permette al personaggio di un gioco di creare da zero degli oggetti, assemblandone altri: perciò se in SK ci troveremo a dover cuocere la carne, dovremo trovare il modo di accendere un fuoco, e potremo farlo assemblando un bastoncino con delle tavole di legno raccolte in spiaggia o dagli alberi.
Per finire in bellezza, pur apparendo semplice e abbastanza lineare, come potrebbe essere un capitolo di Zelda, SK vanta 7 possibili finali che variano in base a diverse scelte operate durante l’esplorazione.
Insomma questo capolavoro riesce a regalare un senso di realismo e di vertigine anche in 2D con una grafica a 8bit… e oggi anche su cellulare.
In chiusura mi viene da riflettere per contrasto sulla blasonata saga di Final Fantasy, l’emblema del cambiamento dell’industria videoludica negli anni, ovvero quella che penalizza l’originalità (e infatti FF è sempre uguale a se stesso) e l’importanza primaria di una trama interessante, a scapito dei continui miglioramenti grafici che fanno comunque sempre piacere, ma che non regalano il capolavoro.
Anni fa si osava.
Adesso invece si va sul sicuro.
A me però continua a piacere il vecchio ma sempre giovane Stranded Kids!



sabato 17 marzo 2012

Maturazione e character design: viaggio di Naruto da punk a messia


Legami tra maestri: il passaggio di testimone da passato a futuro!
Pare che ultimamente lo sport preferito degli otaku su internet sia dire merda di Naruto.
A mio parere se questo accade, è per via della logica dell’ “I knew it before it was mainstream”, ovvero quella legge non codificata ma autoevidente secondo la quale si incensa qualcosa prima che la conosca la grande massa, e quando poi la suddetta cosa diviene di dominio pubblico ci si discosta e la si disdegna.
Nel mondo dei manga spesso l’iter è questo:
-l’otaku di turno sgama le scan dell’ultima hit giapponese: è una figata
-l’otaku ostenta tra forum, gdr, youtube e social network la sua conoscenza “approfondita” in campo fumettistico: l’opera è ancora una figata, degna di essere consigliata alla gente
-la panini annuncia l’edizione italiana del manga: l’otaku è felicissimo, ma non prevede un buon lavoro da parte dell’editore
-mediaset annuncia l’anime: l’otaku si incazza perché mediaset è una merda
-mediaset manda in onda l’anime: la gente lo guarda
-la gente conosce l’anime, qualcuno in più compra il manga: per l’otaku tutto è diventato merda e passa a cercare qualche cos’altro di semisconosciuto ai più per fare l’intellettualoide del fumetto scannerizzato.
Naruto è l’emblema di questo meccanismo.
Per chi ancora non lo sapesse, il manga in questione è la lunga epopea del ninja Naruto Uzumaki, detentore di un potere tanto grande che poco prima della sua nascita minacciò la sopravvivenza stessa del suo villaggio, e che lui non riesce del tutto a controllare; per questo motivo viene emarginato dai suoi concittadini, e il suo essere orfano e poco studioso all’accademia ninja di certo non lo aiuta ad avere la vita normale che ogni dodicenne del villaggio si gode.
Essendo il manga basato su una società di ninja, ed essendo il classico shonen in cui i ninja sono tutt’altro che spie vestite di nero, ma guerrieri appariscenti con poteri alla X-men, possiamo avere un’idea delle tematiche generali della storia, la quale sarà costituita principalmente da una lunga serie di combattimenti.
I personaggi sono tanti, l’ambientazione è talmente ben caratterizzata che sembra fatta apposta per ricavarne un gioco di ruolo, le tecniche di combattimento dei protagonisti sono creative e spettacolari e si prestano benissimo alle animazioni dei videogiochi…
ordinaria amministrazione, penseranno un po’ tutti.
Ma allora cosa rende questo manga davvero speciale?
Sarebbe difficile liquidare il tutto in una parola, ma se proprio mi vedessi costretto credo che sceglierei MATURAZIONE/FORMAZIONE. (che sono due -.-)
Naruto contiene diversi piani di lettura, ma a partire da un certo punto in poi la componente psicologico-spirituale diventa talmente potente da soppiantare quasi completamente, almeno ai miei occhi, tutta l’interminabile trafila di combattimenti che caratterizzano la narrazione.
Chi apprezzava Naruto almeno nelle battute iniziali, lo faceva anche per via del modo tutto particolare del maestro Kishimoto di condurre gli scontri tra apprendisti ninja: i piccoli protagonisti essendo soltanto studenti ricorrevano a poche tecniche ciascuno, e i combattimenti si risolvevano grazie alle strategie, o alla maniera più coraggiosa o intelligente di impiegare le poche carte di cui i personaggi disponevano.
Poi Kishimoto ha delineato uno stacco temporale in un punto cruciale della storia; a questo proposito vorrei far notare come egli sia stato il primo (di una lunga serie) a compiere questa coraggiosa scelta narrativa, ma per questo sia stato abbandonato e bistrattato da tanti fan, secondo me in maniera ingiustificata.
Tornando al concetto di MATURAZIONE, è bene che io racconti come mi sono avvicinato a questa splendida opera.
Conobbi il manga di Naruto poco dopo l’uscita della sua prima edizione italiana… ero in seconda media.
Lo trovai un manga fresco, interessante, pieno di energia, con personaggi fighi e una storia appassionante.
Io ero piccolo, e i protagonisti avevano più o meno la mia età…
per farla breve, quel manga per me ha avuto un po’ l’effetto Harry Potter, ovvero io sono cresciuto di pari passo con i protagonisti, e adesso che sono al secondo anno di università mi ritrovo ancora a seguire con la stessa impazienza le gesta del biondo shinobi settimana dopo settimana, talvolta anche direttamente in Giapponese.
La cosa meravigliosa di Naruto è che la crescita non è stata solo anagrafica, ma assieme a me, assieme a Naruto Uzumaki, anche le tematiche sono diventate più adulte, tanto che adesso fatico a incasellarlo nel target shonen.
Da quando il protagonista è cresciuto sono stati toccati temi come:
-la crescita e il conseguente cambiamento dell’individuo, che porta alla dolorosa fine di un’amicizia
-la morte degli amici e il sacrificio per salvarli
-il rapporto maestro-allievo
-l’amore, impossibile e irrazionale
-l’umanità che si ritrova nel nemico
-la pazzia
-la menzogna
-la vendetta
-la guerra
-la paura del diverso
e questi sono solo alcuni dei macrotemi più adulti che si possono ritrovare nella lunga storia.
E mano a mano che le decine si accumulavano sulle decine dei volumi, Naruto, da piccolo emarginato dispettoso, arriva piano piano a ritagliarsi il suo posto nel mondo, prima con poche amicizie, ma per le quali vale la pena battersi e fare dei sacrifici; poi guadagnandosi la stima anche dei grandi; e infine diventando addirittura l’eroe del villaggio.
La carica fortemente simbolica della conversazione con Pain, della morte di Jiraiya e di come Naruto la metabolizzi rappresentano un fondamentale e rivoluzionario passo avanti sia ai fini della trama del manga, sia per tutto il resto del panorama fumettistico giapponese. Naruto non combatte più per diventare Hokage, e nemmeno come Sasuke, il suo eterno punto di riferimento e come amico e come rivale, per vendicare qualcuno; Naruto combatte per interrompere la spirale d’odio che attanaglia il mondo dei ninja. Naruto vuole portare la pace e trionfare laddove eroi del calibro di suo padre e dei suoi maestri avevano fallito: portare la pace al mondo dei ninja.
E laddove nessuno aveva trovato una soluzione per fermare le continue guerre di vendetta, il giovane spiazza tutti, affermando di volersi far carico, da solo, di tutto l’odio del mondo, per lasciare dietro di se la pace, e lottare da solo contro i demoni di tutti.
Qualcuno storce il naso per i power-up continui e ingiustificati, ma qui, a differenza che in tanti altri manga, il potenziamento e la nuova tecnica diventano metafora di una maturazione interiore del personaggio, manifestazione tangibile di un cambiamento nella psicologia del ninja.
I Giapponesi hanno ancora la ferita aperta della bomba atomica, e lo si percepisce in molti sensi, accostandosi tanto ai film quanto alla letteratura dell’ultimo secolo.
A questo proposito facciamo attenzione alla finezza con cui Kishimoto articola il concetto di Jinchuuriki, ovvero della figura di ninja posseduto da un demone.
In una sorta di guerra fredda tra Paesi ninja, l’equilibrio viene mantenuto grazie al timore che incutono le forze portanti in possesso dei vari villaggi, le quali da sole devono caricarsi sulle spalle la responsabilità per la sopravvivenza di un villaggio che ne ha timore tanto da emarginarle.
Si tratta della logica della bomba atomica, che crea una situazione di stallo perché il suo potere distruttivo fa paura.
I ninja come Naruto, posseduti da un demone nemmeno per colpa loro, non sono altro che il prodotto definitivo di un mondo malato alla radice che Pain vuole sradicare ma che Uzumaki vuole curare.
E Kishimoto ci regala momenti indimenticabili, in cui la finezza psicologica di un personaggio in carne ossa che riflette sul proprio status di arma-con-sentimenti raggiunge picchi ineguagliati.
Personalmente (non voglio fare troppi spoiler) mi sono commosso nel momento in cui Naruto scopre il nome del demone volpe, perché lo fa semplicemente domandando la cosa che nessuno si era mai sognato di domandare prima, per paura del diverso.
In definitiva, Naruto è un manga geniale, che si presta ad essere letto su svariati piani e che a ogni rilettura regala delle sorprese (ad esempio a me che sono nipponista ne regala tante, con le sue frequenti citazioni alla cultura classica del Paese del  Sol Levante).
È per me il manga di formazione per eccellenza, e inviterei i criticoni ad effettuare una lettura critica, prima di criticare perché va di moda!
Su Naruto c’è ancora tanto da dire, e credo che tornerò ancora sull’argomento… ad esempio per provare a rintracciare un po’ di citazioni culturali tra le vignette di questo capolavoro^^ 

Cronache di come l'Italia abbia ignorato il nuovo Pokèmon



La metropolitana giapponese è un luogo tranquillo, caratterizzato dalla regola aurea di ignorarsi vicendevolmente per non essere invadenti.
Nasce così nelle menti nipponiche la ricerca di metodi sempre più efficaci per combattere il voyeurismo da tempi morti tenendosi impegnati.
Ecco perchè credo che la metropolitana giapponese sia il contesto ideale da cui partire per stilare una classifica dei nuovi trend in fatto di intrattenimento portatile.
Da un po' di anni a questa parte lo scenario che molto probabilmente vi si potrebbe presentare nella suddetta metro è quello di tanta gente, ragazze e ragazzi, adulti e studenti, tutti intenti ad andare a caccia di draghi sulle loro Play Station Portable.
Oggi voglio parlarvi del fenomeno di massa chiamato Monster Hunter!
(Fenomeno di massa che l’Italia sembra aver accuratamente schivato).
Il gioco in questione per quanto complesso, vanta un concept veramente semplice ed essenziale:
- crea un personaggio
- immergiti in ambientazioni naturali selvagge e incontaminate alla caccia del bestione di turno
- usa i suoi resti per costruirti armi e armature sempre migliori.
Ovviamente gli orpelli di contorno sono tanti e sugosi: si va dalla gestione di una fattoria per la raccolta delle risorse, alla pesca, alla cucina, all’allevamento dei Felyne (micetti che col loro pollice opponibile e la loro stazione eretta la fanno in barba alla classica teoria dell’evoluzionismo).
Manca solo un particolare a questo videogioco: una trama.
Il gameplay infatti si configura come un continuo accettare le missioni organizzate dalla gilda degli hunter, e portarle a termine –ma bisogna mettere in evidenza il fatto che il gioco risulti tutt’altro che ripetitivo-.
La mancanza di una trama è giustificata dalla spiccata vocazione al tag di questo capolavoro: è consentito infatti affrontare le missioni con un party di massimo quattro hunter.
Chi di voi non si è gustato almeno una volta scambi e scontri con gli amichetti all’epoca dei Pokèmon?
Chi come me ha assaporato quei momenti capirà quanto la possibilità di condividere l’esperienza ludica con gli amici impreziosisca le dinamiche di gioco.
Inoltre nel caso in questione, il multiplayer alleggerisce il carico di difficoltà, a volte realmente eccessivo.
E in Italia tutto ciò?
Bè, in Italia ho pensato per anni di essere l’unico hunter nazionale.
Ora sono sicuro che ce ne siano altri, ma a Piacenza rimango l’unico.
Sebbene MonHan (così lo abbreviano in Giappone) sia nato su Play Station 2, le sue apparizioni più felici si sono viste su PSP; nel nostro paese ne sono giunte tre: MonHan Freedom 1, MonHan Freedom 2, MonHan Freedom Unite. L’ultimo capitolo in ordine di tempo, Portable 3, non si è mai visto da noi, perché sebbene sia una delle killer application della consolle, ha avuto la pecca di uscire troppo a ridosso della morte PSP pre PSVita e quindi nessuno si è disturbato a tradurre la perla.
Perla che spinge la grafica ai massimi livelli, ravviva i colori delle ambientazioni, amplia il parco armi/armature (che per la prima volta possono essere costruite anche per il felyne) e generalmente sfrutta la formula collaudata implementando qua e là diffusi miglioramenti.
Ho conosciuto qualcuno in Italia che ha giocato a MonHan, ma l’unico che si è fatto veramente prendere come me dalla magia di questo capolavoro è un fumettaro di Genova.
Non avevo un punto vero e proprio nel fare questo discorso… volevo solo mettere in evidenza come quello che in Giappone è un fenomeno di massa, e che universalmente è un ottimo gioco, che potrebbe regalare diversi momenti di divertimento e soprattutto di aggregazione (che è un plusvalore non da poco, che trascende i limiti del medium videogioco, generalmente attività da lupi solitari almeno su consolle), in Italia sia passato totalmente inosservato, a scapito dell’ennesimo gioco di guida/sparatutto/gioco di calcio.
Ma di questo parlerò in un prossimo post…

Ecco MonHan...






.. in Giappone è tanto popolare che ne fanno il cosplay...



.. diverse edizioni manga, le novel e i gadget.