![]() |
Ed è subito amore. |
Ho appena terminato di guardare le prime due stagioni di Sherlock, e tralasciando che ultimamente ho una predilezione per cose e persone inglesi, questo è diventato il mio telefilm preferito di sempre.
Sherlock è un serial tremendamente perfetto, da qualsiasi angolazione lo si guardi.
Io per esempio non sono mai stato un grande amante dei telefilm in genere, un po’ perché sono infiniti, un po’ perché parecchi sono troppo episodici e non avendo una trama di fondo non arrivano a un punto, un po’ perché alla tv italiana fanno solo quelli (più beceri), e poi soprattutto perché non stando sempre attaccato al teleschermo prima o poi succede che mi perdo una puntata e se mi perdo una puntata mi secca non avere perfettamente il filo della storia.
Ebbene Sherlock è speciale anche nel formato: due stagioni, di tre episodi l’una (ad oggi). Ogni episodio dura tra un’ora e venti e un’ora e mezza, quindi si può dire che siano sei film. E per me il fatto che sia piuttosto breve è una manna dal cielo. Anche se onestamente ogni volta che vedi i titoli di coda urli che ne vuoi di più.
Per chi non lo sapesse il concept della serie è tratto a piene mani dalle opere di Sir Arthur Conan Doyle; si può dire che sia una rilettura in tempi moderni del detective di Baker Street. E a questo riguardo sono frequenti le strizzatine d’occhio all’opera originale anche nei momenti in cui l’adattamento è più libero. Ma su questo credo che scriverò in seguito.
Gli attori sono fantastici. Tutti.
Forse il fatto di aver visto l’intera serie in inglese aiuta nel giudizio degli attori.
Benedict Cumberbach che interpreta Sherlock è sublime, sembra fatto apposta per il ruolo. Un po’ Dylan Dog, un po’genio sociopatico, riesce a rendere benissimo l’idea di un detective efficiente quanto eccentrico, la sua espressività è alle stelle e la sua voce è calda e profonda. Un vero piacere ascoltare i suoi ragionamenti alla velocità del suono.
Martin Freeman è John Watson, medico militare reduce dall’Afghanistan, claudicante nella prima puntata, per via di un disturbo psicosomatico che però in seguito si lascerà alle spalle.
A proposito di Watson vorrei spendere qualche parola in più: secondo me infatti il personaggio-Watson è un esempio riuscitissimo di personaggio spalla. E secondo me non è facile scrivere un personaggio spalla: si rischia sempre di sconfinare nell’inutile, nel ridondante e nel ridicolo. Watson invece è un manuale per sceneggiatori: non è una puttana da attenzioni, di quei personaggi che rubano la scena ai protagonisti, e non è nemmeno un elemento trascurabile. Il buon Watson è un protagonista a tutti gli effetti, è determinante in diversi frangenti di diverse avventure pur non essendo brillante come Sherlock nel ragionamento; il suo rapporto con Sherlock, amicizia profonda che nasce gradualmente e che da fuori qualcuno prevenuto scambia per omosessualità, è reso in maniera magistrale. Anche la psicologia di Watson, per quanto non sia il tema portante della serie, viene sviscerata a dovere. È un personaggio che riserva sempre delle sorprese, fino all’ultimo. In breve, ha la stessa funzione del basso in una band musicale: quella nota quasi silenziosa che pur non rubando il palco, col suo lavoro nelle retrovie tiene in piedi il tutto.
Gli altri comprimari sono spettacolari ma un encomio particolare va al cattivone, Jim Moriarty, interpretato da un magistrale Andrew Scott, che possiede una mimica facciale allucinantemente perfetta, e riesce a passare dal riso alla rabbia alla sfida alla calma in poche frazioni di secondo. Davvero un cattivo perfetto, ed un attore che si presta ai toni su cui la serie è impostata.
In ogni puntata nulla è mai lasciato al caso, e l’intera serie sembra obbedire alla regola aurea dello storytelling secondo la quale se compare una pistola, prima o poi quella pistola spara. E non c’è nessuna sbavatura.
Particolare rilievo va dato ai ragionamenti di Sherlock, che sono qualcosa di fantastico.
Ho sempre pensato che sceneggiare un personaggio geniale fosse un’illusione piuttosto difficile da realizzare: i casi infatti sono due, o lo scrittore è più geniale del personaggio, o lo scrittore è abbastanza geniale da simulare un personaggio più geniale di lui. E concepire un’intelligenza superiore alla propria è un po’ come cercare di immaginare un mondo a cinque dimensioni, penso.
Non so a quale di queste due categorie appartengano gli autori, Gatiss e Moffat, ma il risultato, ovvero la creazione di un personaggio geniale, è perfettamente centrato.
Il pregio migliore dei ragionamenti di Sherlock, a mio parere, sta nel fatto che siano ragionamenti (almeno potenzialmente) alla portata di tutti.
Non si tratta mai di geniali intuizioni ingiustificate, vuoi perché fortunose, vuoi perché il protagonista deve sempre vincere. Non c’è un ragionamento che Holmes non spieghi nei minimi dettagli, e l’effetto che provocano in chi guarda non è tanto della serie “come ha fatto”, ma piuttosto “era evidente, come ho fatto a non pensarci prima”. Sherlock infatti parte sempre dall’osservazione e dalla deduzione, e dalle piccole cose arriva alle grandi, costruendo castelli mentali con basi concrete. Per intenderci, non è Detective Conan.
Se però tutti i casi vengono risolti e Holmes fa da guida allo spettatore spiegando come fare, alla fine della seconda stagione c’è un enigma la cui risoluzione è lasciata totalmente a chi guarda, senza alcun tipo di aiuto da parte dei personaggi. E credo che questa sia una trovata geniale, perché è un connotato tipico della narrazione poliziesca, quello che il lettore/spettatore cerchi di risolvere il caso di pari passo, o magari prima del protagonista stesso.
E in questo caso l’ultima parola viene lasciata a te che guardi.
Finito Sherlock, è come se fosse finito un capitolo della mia vita e se ne aprisse un altro. Quella roba ti cambia nel profondo, cambia il tuo modo di pensare.
Per questo, caro lettore, sappi che se ti dovessi vedere di persona comincerei a cercare tracce di farina sulla tua manica o unghie smaltate male, o numeri di telefono sui tuoi fazzoletti, o peli di cane sulle tue caviglie…
Nessun commento:
Posta un commento